Varela, M.Elena Crux, 2001
L’angelo perseguitato, recensione di Maria Elena Cruz Varela, L’angelo consunto (1989-1991): selezione di poesie La Habana, Cuba, Traduzione e Prefazione di Lucio Lami, Milano, Terziaria (Poesia 7), 2001, pagine 80, «Rosetum», 7-8 (2002) pagina 16.
Testo della recensione
Questa volta mi occupo di poesia. Che è un grido d’angelo contro la tortura e la sopraffazione perpetrate dal regime dittatoriale di Cuba contro l’autrice, e contro tanti altri dissidenti. L’autrice, Maria Cruz Varela, Membro onorario della Società Internazionale per i Diritti Umani e candidata al Premio Nobel per la pace nel 1992, ha pagato di persona la sua opposizione alla dittatura castrista. Il prefattore, Lucio Lami, che l’ha conosciuta personalmente, ne ricorda le sventure che ella ha dovuto subire: persecuzioni fisiche, oltre che psicologiche.
È utile darne un pur breve conto, perché il mondo occidentale, e in particolare italiano, sembra aver sempre voluto sorvolare sui crimini compiuti dai regimi comunisti: solo l’Arcipelago Gulag mosse un po’ le coscienze occidentali, e in Italia provocò soprattutto irritazione, come rammenta Lami.
Dopo che la Varela scrisse a Fidel Castro di non condividere il suo pensiero espresso in alcuni discorsi ufficiali, fu assalita in casa dagli squadristi: “Alcuni energumeni gettarono il figlio della poetessa giù dalle scale, poi presero lei e, mentre uno la teneva per i capelli, gli altri la picchiavano a calci e pugni. «Che le sanguini la bocca, che le sanguini bene», urlava quello che sembrava il capo”. Poi venne il turno della Polizia, che la arrestò. La donna fu incarcerata per attività antipatriottica. Episodi del genere sono numerosi: la dissidenza intellettuale è stata perseguitata o bandita, dal regime cubano. Ma il peggio è – precisa Lami – che l’Occidente relega nel silenzio gli scrittori dissidenti del mondo comunista, anche quando costoro hanno la fortuna di approdare nel mondo libero.
Queste poesie di Varala, “scritte nelle ore del dolore”, osserva Lami, “[sono] spesso trapassate da lampi, da metafore brucianti, da spasimi che contraggono l’immagine fino all’irrealtà […].
Le sue parole hanno sempre la miracolosa capacità di riversare nell’alveo della forma letteraria la depressione come la speranza, la rabbia come la tenerezza, e perfino la nera disperazione prodotta da una violenza che riecheggia nei versi, come il martello sui chiodi della crocifissione. […] A volte, il verso sembra salire dalle brume dei ricordi, da un esame quotidiano del passato, dalle prese di posizione assunte con tanti compagni, molti dei quali scomparsi, fuggiaschi, rinunciatari o vittime della stessa persecuzione, guardati con tenerezza e rimpianto”. Affranta dalle sofferenze del carcere, la poetessa sa innalzare la preghiera di più alta umanità, come quando scrive: “La campana [del carcere]. Così lugubre. Così nitida. Così sola. / Santificata sia. Santificata sia / e benedetta quest’orazione. […] / Il macabro rituale degli scomunicati. / Santificati siano. Il rogo dove danzano / baciandosi i violenti santi inquisitori” (Orazione).
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