Solitario, Francesco, 1992
Parliamo del “bello”…, recensione di Francesco Solitario, Itinerari del sublime, Milano, Prometheus, 1992, pagine 274; Idem, La ricezione critica di Ananda K. Coomaraswamy, Milano, Prometheus, 1992, pagine 203, «Rosetum», 5 (1993) pagina 31.
In copertina: grafica di Edelgard Wortmann
Testo della recensione
L’idea del “bello” è tramontata? Per alcune correnti dell’arte novecentesca, sì. Anzi, per esse è tramontata anche l’arte stessa. Si tratta di correnti d’avanguardia, storicamente hanno assunto varie denominazioni. Ce ne fa un quadro attento e chiaro, nell’ultimo capitolo del suo libro sul “sublime”, Francesco Solitario, cultore di estetica all’Università Cattolica di Milano. I motivi che hanno condotto gli esponenti di questi movimenti (dadaismo, futurismo, astrattismo, pop art, arte concettuale, informale, body-art, ecc.) al rifiuto dell’idea tradizionale del “bello” e dell’arte sono svariati e di diversa natura: quella sociale e politica, ad esempio, prende spunto dal fatto che l’arte precedente, con tutte le sue teorie e con le sue espressioni estetiche, era legata ad un ambiente elitario, per cui la concezione del “bello” sarebbe stata intesa in modo riduttivo, parziale e, soprattutto, statico. Ma le ragioni più vitali della novecentesca ribellione – che ha attraversato l’Occidente da Est ad Ovest, e viceversa – si radicano in sostanza in una visione della realtà in generale, secondo cui la verità è troppo complessa per essere racchiusa in una qualche idea razionale e fissa. Da ciò, il concetto di “bello” inteso come “ricerca”, appunto come “sperimentazione” e, inoltre, come concretezza assoluta del reale. E poiché il reale non è fatto soltanto di “belle” cose, ma anche di cose brutte, e, anzi, poiché il reale non è né bello né brutto – poiché tale dimensione appartiene ad una valutazione umana -, ecco che l’arte diventa quasi la “ripresentazione” della vita tale quale essa è. Il massimo di siffatta rappresentazione della “non-arte” è quella corrente le cui “opere” date in visione sono proprio gli oggetti puri e semplici del mondo, o addirittura dei “corpi” umani in carne ed ossa.
Perché, tutto ciò? In fondo – ed è questa una radicale convinzione dei movimenti sperimentalisti -, l’arte, come ogni forma di comunicazione, “non può dire la verità”, “non può dire la vita”, perché la verità e la vita sorpassano inesorabilmente la capacità umana di stabilirle, di fermarle in qualsiasi attimo per quanto fuggente. Ed allora, all’arte così come alla parola, si sostituisce – e convien sostituirvi – il silenzio…, o quanto meno l’indeterminato, il balbettio…, l’informe, o anche solo il grezzo dato reale. Francesco Solitario mostra poco entusiasmo per queste nuove… scoperte: egli afferma il grande valore, non solo storico ma anche teorico, del “bello”: anzi, del sublime. E ritiene che il “sublime” riscatterà dalla crisi l’arte attuale.
Il sublime infatti, come sostenne Longino (Pseudo-Longino), un pensatore del I secolo d.C., è la cosa più vicina all’animo umano: e come si può dubitarne, se opere d’arte le più lontane nel tempo e le più eterogenee per provenienza culturale riescono a commuovere sempre l’animo umano? Opere azteche e opere greche. Monumenti musulmani e monumenti cristiani. Dipinti medioevali e dipinti cretesi. Musiche africane e musiche europee…
Ma che cos’è il sublime? In parole povere, è qualcosa di più del bello. Il bello è ciò che ammiriamo; il sublime è ciò che ci lascia stupefatti. Il bello “piace”; il sublime travolge. L’uno e l’altro appartengono all’estetica, e in qualche caso si distinguono appena, la riflessione filosofica al riguardo è sottile e complicata – l’Autore la mette al vaglio con molta perizia -, ma in poche parole si può dire che i fattori del sublime sono i seguenti, come sono stati fissati dal citato Longino: 1) elevatezza del pensiero, aspirazione ad alti ideali, grandezza d’animo; 2) potenza affettiva; 3) nobiltà di espressione, cui vanno congiunti, per l’arte letteraria, l’uso sapiente delle figure retoriche e la forma del discorso.
Le più interessanti riflessioni sul sublime si concentrano forse in Kant: il sublime “è ciò che attesta nell’uomo una facoltà superiore ad ogni possibilità di misurazione dei sensi”. Il sublime proietta l’uomo nell’infinito: perché egli può sempre “pensare” a qualcosa di più “bello” di ciò vede. Il sublime immette l’uomo nella trascendenza. Anzi, solo attraverso l’arte sublime egli intuisce l’infinito. Dopo Kant, i romantici assegnarono un ruolo determinante al sentimento, e compresero che proprio attraverso il tema del dolore, espresso nell’arte, si rende conto di essere capace di superare le difficoltà della vita e di essere, pertanto, “superiore” alla natura, cioè al mondo stesso. Nel Romanticismo, l’arte serve proprio a liberare l’uomo dalla dipendenza del mondo, e per Schopenhauer è una importante tappa verso il superamento delle “tensioni vitali”. Queste, in estrema semplificazione, alcune delle linee interpretative nella nostra cultura occidentale. Ma è ormai giunto il tempo in cui dobbiamo confrontarci con le idee di altre culture: ora che il mondo sta camminando verso una unità planetaria più stretta e – e lo si spera – più partecipe. Il pensiero insito in altre mentalità, d’altronde fiorite magnificamente in vari campi dell’umana espressione, arricchisce chi lo studia facendone tesoro. È il caso dell’estetica indiana. A proposito dell’estetica indiana antica, Grazia Marchiano, una benemerita studiosa in tal campo, e docente universitaria, avverte che la conoscenza non deriva dalla percezione empirica, cioè dei sensi, ma da un modello interiore, le cui idealità – verità, bellezza, amore – derivano da un unico principio, che è la natura di Dio. L’arte dunque nasce da una contemplazione, attraverso un’intuizione, “nell’estasi intellettuale”: “è come uno sprazzo di luce rifulgente di origine sopramondana”. È facile, per il pensiero orientale, capire come la conoscenza del mondo sia congiunta alla conoscenza di Dio, perché per esso, più di quanto il pensiero occidentale sia stato in genere capace di concepire, il mondo ha un legame più stretto con Dio. Ora, Ananda K. Coomaraswamy, un pensatore di questo secolo che ha conosciuto assai bene sia il pensiero orientale sia quello occidentale, ha cercato di avvicinare, in ambito estetico, le due culture. E lo studioso che qui presento, Francesco Solitario, seguendo le tracce di Grazia Marchiano mostra come ciò sia possibile e come sia al contempo proficuo. [Francesco di Ciaccia]
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