Risi, Dino e Pennati, Camillo, 2002
Versi d’autore, recensione di Dino Risi, Vorrei una ragazza: epigrammi & aforismi, Presentazione di Maurizio Cabona, Milano, Asefi Terziaria (Quaderni 9), 2002, pagine 153; Camillo Pennati, Lo stupore del verso, Milano, Asefi Terziaria (Convivium 1. Collana diretta da Roberto Bertoldo), 2002, pagine 96, «Rosetum», 11-12 (2003) pagina 21.
Testo della recensione
Prendo in considerazione due opere di nomi famosi: Dino Risi e Camillo Pennati. Dino Risi, uno dei registi rappresentativi del cinema italiano, ha voluto stilare in epigrammi e aforismi i propri pensieri sull’esistenza umana, sulla vita dei nostri tempi, e sulla propria vita. I suoi epigrammi fanno venire in mente quelli di Marziale: alcuni sono filosofici, altri icastici e a volte caustici. Qualche esempio. “Era un buono a nulla, capace di tutto”: con cui sembra bollata la superficialità di certi operatori, in tanti campi. “La luna di città è una luna triste, una luna che fa il turno di notte”: che esprime l’atmosfera greve della società industriale, in cui la stessa aria sembra privata di ogni alone naturale. “La giornata è lunga, la vita è breve”: che getta una cruda luce sulla percezione della brevità del tempo, nel momento in cui la vecchiaia allunga l’arco temporale tra l’alzarsi e il coricarsi e racchiude, in un pugno di ricordi, l’età trascorsa (“Non pensavo che il futuro fosse arrivato così presto”). In effetti, l’animo di Risi erompe dai pensieri fulminei con una vena di solitudine; una solitudine tuttavia protesa verso la comunicazione, verso l’incontro con gli altri: “Natale / sono solo / e dico non m’importa / ma invece aspetto / che suonino alla porta”.
L’altra opera è quella di un poeta che tra gli autori delle sue prefazioni ha avuto Salvatore Quasimodo. E proprio la poetica di Quasimodo mi sollecita l’approccio con l’opera di Pennati. Nulla ha a che vedere con quella che si definisce, sia pure in senso sfumato, poesia romantica, né con quella, invalsa in molti innovatori contemporanei, cosiddetta sperimentale. Si tratta invece di una poesia che non mi esimo dal chiamare classica: non nel verso ma nella corposità del pensiero e dell’immaginazione. Anche la struttura sintattica si distanzia dalla scrittura dei piccoli sentimenti: non frasi brevi, mozzate, ma periodi estesi come in un racconto immenso. Ed immenso è il contenuto: l’Autore canta – o narra? – “il mare in meditazione”, le metamorfosi della “risacca”, il mondo marino, incommisurabile (che è il tema di una specifica sezione).
Il confronto con Quasimodo s’impone in questo: l’immagine, realistica, diventa cifra nascosta della metafisica. La concezione del mondo e della vita non è tuttavia, nell’opera di Pennati, un intento che si nasconda sotto le forme della poesia. Piuttosto, è la concezione dell’esistenza a guidare l’attenzione dell’Autore su un mondo che appare sempre stupefacente: “Scruta e non saprai che scorgere / l’innamorato filo della vita che di continuo estende / il suo disegno ad inverarsi in te […]” (Straniamento).
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