Pallavicini, Yahya, 2010
Yahya Pallavicini, La Sura di Maria. Traduzione e commento del capitolo XIX del Corano, Brescia, Morcelliana (Il Pellicano rosso, nuova serie, a cura di Paolo De Benedetti, 117), 2010, pagine 232, in Literary.it, 1 (2012).
Testo della recensione
Quando ascolto o leggo discorsi di Yahya Pallavicini – di cui qui mi accingo a recensire un libro -, mi sento, ogni volta puntualmente, ricondotto alla sfera dei discorsi da me praticati nella lettura dei santi uomini della religione cristiana.
In una mia richiesta, espressa a voce, di chiarimento in occasione della conferenza su «Metafisica ed ecumenismo», avevo avanzato il dubbio che la dimensione “metafisica”, in vista di convergenze tra le religioni rivelate fosse strumentale ad una operazione del seguente tenore: riconoscersi in sintonia su un piano di “metafisica razionale”, quindi intellettualistico, per ovviare alle divergenze strettamente religiose, quindi fideistiche.
Ora, leggendo il presente libro, noto, al contrario, che l’impianto logico e metodologico è esattamente l’opposto: il piano del discorso, che va posto – se si vuole scoprire e osservare qualche punto ecumenico tra le dette religioni – è quello non già logico-razionale, ma è quello spirituale della fede. In tale contesto logico-concettuale, allora, la “dimensione metafisica” (p. 216) equivale alla conformazione dell’anima alla volontà di Dio: significa “quella perfezione spirituale alla quale uomini e donne sono tenuti ad elevarsi, superando i limiti dell’ignoranza e delle passioni per disporsi a compiere la volontà divina” (p. 217).
Ho citato questo passo, perché esso, che manifesta il pensiero dell’Autore, è esattamente un passo che potrebbe essere tratto dal discorso di un qualsiasi santo del cristianesimo. (Poi però si dovrà dirimere la questione su “quale sia” la volontà divina e “come” la si individui).
A questo punto ci si può domandare come si possano – se mai si debbano – risolvere i punti discordanti – o contrapposti e contrapponibili – tra una religione e l’altra, nel concreto tra islamismo e cristianesimo. La risposta – quella che è parsa a me – è che il problema è estraneo alla posizione mentale esplicitata dall’Autore. Questa posizione – che appartiene all’anima ed è spirituale – sta al di là, o al di fuori, delle contrapposizioni o contrasti. Questi ultimi, infatti, appartengono alla dimensione “ideologica” (p. 217) dell’interpretazione delle religioni, magari accostate e vissute con spirito “formalistico”; l’approccio proposto, invece, è solo e semplicemente quello della santità – adesione alla volontà di Dio. La santità o adesione alla volontà di Dio avviene in una sfera sostanziale, e questa è identica per tutte le religioni rivelate, e in una sfera che è, invece, pratica, rituale, e questa si diversifica secondo le varie strade indicate dalla ricorrente e medesima Rivelazione divina.
Il “pluralismo” delle religioni – in Occidente, si precisa anche – e la loro concordia non si fondano, quindi, su una strategia politica di convivenza necessaria; non si richiamano a imperativi o a riscontri culturali laici (p. 217); si fondano sulla chiamata alla santità e si richiamano ad essa, nella quale consiste, in definitiva, la dimensione del “sacro”.
L’esposizione sulla “felicità ed infelicità” chiarisce limpidamente in che cosa consista la santità, la quale, come detto, sta nel realizzare la volontà divina. La volontà di Dio si realizza, solo se l’individuo umano accoglie, con cordialità d’animo, ciò che Dio manda. E qui inteviene il problema di capire ciò che Dio manda, di avere il “senso” interiore che sa cogliere i segni concreti di che cosa è che manda Dio. È possibile offrirne un criterio oggettivo, comunque, ed esso è molto preciso e assolutamente categorico, almeno in negativo: ci si pone al di fuori della volontà divina, quando si inseguono beni per il proprio tornaconto, quando si aspira a soddisfazioni personali, quando si vede soltanto il proprio “io”, sia pur divinizzando – ovvero, idolatrando – ideali giusti e meritevoli di attenzione; in sintesi, quando si cerca ciò che vogliamo noi o addirittura ciò che vogliamo noi che Lui mandi. Tra gli ideali, che si possono definire giusti e di valore, si inscrivono indubbiamente quelli definibili, in sintesi, patrii e confessionali. Anche in ciò – sottende l’Autore – si nascondono tranelli, i tranelli più subdoli e più pericolosi, proprio perché è facile, anzi spontaneo e, all’apparenza, perentorio confondere la propria progettualità, cioè quella immanente – egoistica e utilitaristica, legata alla logica mondana degli interessi di potere, di prestigio, di terrestrità -, con la divina volontà. Che cosa di più conforme alla volontà divina – appunto si può pensare, per esempio – che assoggettare con la forza, o con la diplomazia, o con la psicologia, tutto il mondo – sempre, per esempio – all’obbedianza a Dio (ciò che è stato cercato già, nel passato, e che si cerca a volte oggigiorno)?
Tralasciando una problematica così impegnativa, a livello più materiale si discute su un’altra sfera di beni, quelli materici della ricchezza economica. All’infuori della prospettiva che si fonda sulla volontà divina, “la ricchezza consiste nell’avere sempre di più”; di contro, nella prospettiva che si fonda sulla volontà divina, “la ricchezza consiste nel fare sempre di più per cercare di essere una persona sempre migliore” (pp. 211-212). Ma tralasciando anche questa problematica della povertà – soprattutto, poi, quella della povertà spirituale, il cui pensiero proposto dall’Autore è identico, ancora una volta, a quello dei santi uomini del cristianesimo, anzi lo è in maniera ancora più identificativa e totale -, in sostanza si tratta sempre, su un piano generale del discorso, di assumere il progetto di vivere la perfezione: “Una creatura si potrà definire perfetta se riesce a consacrare la propria attività sulla terra al servizio del Misericordioso”, cioè a farsi guidare “con amore dal suo Signore nella pratica di una pietà spirituale che si esprime con una carità nei confronti del genere umano e del resto della creazione” (p. 156).
Ho dichiarato poco sopra di voler tralasciare alcune problematiche specifiche – e impegnative – che toccano alcuni punti di conflittualità tra “occidente” e islamismo. In realtà, tuttavia, l’Autore – sfruttando proprio il commento alla Sura di Maria -, ne fa oggetto preciso di riflessione.
Una considerazione viene offerta a proposito della convivenza tra i diversi popoli della terra. L’Autore sostiene che è condannabile – poiché contrappositivo ad Allah stesso – l’opposizione alla comunità dei servi di Allah – in altri termini, è ingiusto impedire ad un popolo, ad un gruppo di esseri umani di confessare e praticare la propria religione. Questo atteggiamento non induce alla ghettizzazione – peggio, alla persecuzione – di alcuna comunità di persone; al contrario, è un atteggiamento che si fonda su un principio, assoluto e universale, che conduce alla salvaguardia e al rispetto di ogni altro gruppo umano. Scrive l’Autore – che è così chiaro, che mi sembra opportuno citare le sue parole -: “Non si tratta quindi di costruire artificiosi ghetti o colonie confessionali né di anticipare il giudizio tra buoni e cattivi salvando solo i propri simili e condannando tutti gli altri. Ogni musulmano ha il dovere di essere il rappresentante di una comunità di credenti che ha la responsabilità di vivere, studiare, lavorare, dialogare e partecipare con tutti i popoli affinché la testimonianza di una sensibilità spirituale, di un’onestà intellettuale, di una dignità dell’intelligenza umana e di un gusto per la pace possa essere offerta alla partecipazione di tutti, senza peraltro pretendere che ogni uomo e ogni donna debbano necessariamente condividere questa prospettiva in egual misura o allo stesso modo. […]. I pericoli di un conformismo globale o di un’omologazione dispotica vanno scongiurati anche quando è la forma religiosa ad essere strumentalizzata proprio a discapito dell’universalità del genere umano e di ogni uomo e donna, fatti, secondo quanto riportato da una tradizione islamica, ad immagine del Misericordioso” (pp. 179-180).
Più in generale, ma anche più puntualmente, l’Autore poi sostiene che il “letteralismo” è un criterio di lettura non applicabile ad un Testo sacro. Sono vittime di una interpretazione letteralistica coloro che, in realtà, intendono le parole del Testo sacro cristallizzandosi nei significati immediati delle parole, magari filologicamente esatti, senza però connetterli – grazie alla sapienza del “cuore”, inteso come simbolo dello spirito e non come simbolo dell’emotività o del sentimento – al significato di fondo del Testo stesso, alla sua Rivelazione essenziale. La quale consiste nella “buona novella, la notizia provvidenziale di una nuova occasione per ripristinare l’antico e intimo dialogo tra le creature e il loro Signore” (p. 185).
Un esempio di questo principio si può rinvenire, per riferirmi direttamente al commento della Sura di Maria – accuratissimo, rigoroso e al contempo estremamente chiaro, di immediata e facile comprensione anche per chi non abbia mai letto alcunché di islamico -, a proposito del velo (hijab) che assunse Maryam per “separarsi”, provvisoriamente e in qualche modo strategicamente, o meglio sapientemente, dalla sua gente. “Si tratta per Maryam di un’iniziativa ispirata per adeguare il suo ritiro al carattere di pia adorazione e concentrare la preghiera nell’intimità del suo Signore. […] il velo costituisce un elemento temporaneo di separazione e favorisce il raccoglimento di Maryam nella purezza della sua devozione” (p. 60).
In sostanza, il velarsi – che non ha valore in assoluto, in sé e per sé – è spiegato in considerazione di una particolare necessità interiore – e questo varrebbe, secondo me, anche per “l’abito” dei religiosi cattolici: i quali abiti e qualunque altro segno esterno, se non comportano ed implicano esattamente le esigenze spirituali originarie, esprimono semplicemente un formalismo vuoto, narrano soltanto una falsità reale e spesso sono una presa in giro effettuale. Mi sembra di capire dunque che il velo è svincolato da identificazioni formali, esteriori ed è legato a dimensioni di livello spirituale, al punto che l’ambito spirituale è ritenuto non riconducibile al fatto esteriore.
Un altro esempio, di fondamentale importanza di siffatto approccio spirituale al Testo sacro è individuabile a proposito del concetto di “Cristo re” – quale è definito Gesù Cristo in alcuni passi biblici. L’Autore afferma che la regalità di Cristo, “lungi dall’essere un’espressione di potenza, non è altro che l’espressione della perfetta nobiltà connaturata alla perfetta servitù dell’Uomo”, in altri termini “Cristo è re, perché è “servo” di Dio.
Nella presente lettura del libro di Yahya Pallavicini ho voluto prendere in considerazione gli aspetti generali del pensiero dell’Autore, esposti nei capitoli dell’Appendice. Tuttavia ho tenuto sempre in conto il commento alla Sura di Maria, per accertarmi se le indicazioni contenute nel commento mostrassero contraddittorietà rispetto alle formulazioni esplicitate nell’Appendice o se fossero coerenti ad esse. Ho constatato che esse appaiono sempre coerenti e a tal fine mi piace indicare un altro passo, nel quale è ribadito uno dei principi fondamentali del pensiero esposto dall’Autore: il principio secondo cui la parola della Rivelazione non porta ad una ghettizzazione, di qualsiasi genere e forma, della religione. Commentando il versetto 50 della Sura di Maria, in cui si parla della “lingua elevata” donata da Allah ai Profeti, il commentatore spiega il significato di “lingua elevata” come quella che “ha la funzione di comunicare suoni e contenuti di un mondo superiore e di permettere l’accesso ad una comprensione intellettuale che supera il livello della razionalità e dell’animosità terrena” (p. 99). Tornando, nell’Appendice, al medesimo concetto, l’Autore sviluppa l’idea della “superiorità” rispetto alla razionalità e all’animosità terrestre elaborando il concetto che certe tendenze, o di natura intellettualistica o di natura passionale, conducono all’intolleranza religiosa. E così egli stigmatizza siffatte tendenze: alcuni assumono “atteggiamenti orgogliosi o passionali, devozionali o pragmatici, con l’illusione di adattare Dio al proprio livello di percezione sentimentale o di operatività terrena”, e ciò conduce a una prospettiva e a una prassi “intollerante, volta ad imporre a tutte le creature una versione della religione a propria immagine e somiglianza”. Ora, perché le interpretazioni del testo sacro che si indirizzano verso una prospettiva e una prassi di intolleranza sono da ritenersi ritagliate alla “immagine e somiglianza” di spiriti alieni dal testo sacro medesimo, cioè conformate ad una mentalità che confligge con il testo sacro? Semplice: perché – è quello che a me pare di poter dedurre dal discorso dell’Autore – il testo sacro apre alla tolleranza, anzi alla convivenza tra tutte le varie culture e concezioni religiose, e non alla intolleranza e allo scontro tra le varie culture e concezioni religiose.
In effetti l’Autore chiarisce: la lingua sacra sostanzialmente comunica, come primo di tutti i contenuti comunicati agli uomini, “la buona novella, la notizia provvidenziale di una nuova occasione per ripristinare l’antico e intimo dialogo tra le creature e il loro creatore. Questo messaggio è accompagnato da un ammonimento: quello di dover reimparare a leggere i segni e gli insegnamenti del Creatore” (p. 185).
Se si volesse trasferire in termini semplicissimi il complesso pensiero che l’Autore espone con la dovuta dialettica e con il necessario alto registro linguistico, si potrebbe dire che le varie rivelazioni storiche rappresentano momenti, collocati appunto nel tempo, dell’unica e medesima rivelazione divina; che in sostanza la rivelazione, unica e medesima – a parte le ritualità o pratiche differenti, dovute appunto a momenti storici -, insegna di amare Dio e di amare il prossimo; che l’istanza di amare Dio e di amare il prossimo esclude ogni atteggiamento e manifestazione, interiore ed esteriore, di conflittualità tra le varie comunità umane, anche se di differente ispirazione circa la fede – comprese dunque le comunità di non credenti o di credenti nella negazione della rivelazione -; che ogni credente deve manifestare la propria fede, convinto che difendere la propria fede comporta garantire e rispettare la fede altrui.
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