Esber, Adonis Alì Ahmad
Adonis Alì Ahmad Esber, L’illusione dei miei passi. Poesie, Traduzione di Hadam Oudghiri, Prefazione di Sebastiano Grasso, [Venezia], Edizioni del Leone (Selected Poems, a cura di Paolo Ruffilli), 2011, pagine 111, in Literary.it, 3 (2012).
In copertina: Collage, dell’autore
Testo della recensione
Quella di Adonis, cioè Alì Ahmad Esber, siriano di nascita, è una poesia tremendamente profonda. Profonda e complessa. Con ciò voglio dire che è una poesia la quale richiede una ripetuta lettura, una lettura che sia attentissima ai suoi significati metaforici, perché il testo, oltre ad intrecciare riferimenti alla mitologia classica di tutto il bacino del Mediterraneo, contiene significati a vari strati.
Il primario strato di significanza dà immediatamente un effetto di stordimento. Prendiamo un esempio, assolutamente a caso – poiché è tutto il testo che impone questa percezione. “L’acqua si accende e diventa fulmine, / lievito e fuoco, / ninfea che chiede il mio guanciale / per dormire”. E così via, come di seguito: “Raccoglieremo i mari, esploreremo le conchiglie / goccioleremo di ebano e rubini, / sapendo che la magia / è un genio nero / che ama soltanto il mare” (Il colore dell’acqua). Come riporta Sebastiano Grasso nella premessa, Sogno di un poeta, al presente libro, a proposito del “dubbio” che “assale il poeta” (questo è il dubbio del poeta: “Scrivo – sono terrorizzato / e impazzisco e mi temono / persino l’inchiostro e i fogli / e chiedo a me stesso: sto realmente scrivendo o bruciando?”), anche il lettore si pone il medesimo dubbio: sto leggendo, o bruciando? E si tratta di un bruciore, o d’un fuoco, che non lascia indenni: sbaraglia la mente.
Dico questo, per il fatto che il lettore comprende che i significati vanno scavati – con una indagine che richiede sia il concorso della filologia, sia quelle delle culture comparate, sia quello della analisi del profondo – al di là del significato immediato.
Tra le innumerevoli valenze che potrebbero essere studiate, qui mi soffermo sull’incontro dicotomico tra il bambino e l’adulto della medesima persona (Il principio della parola). Esso rappresenta quasi una parabola della vita che si evolve ma che si ricongiunge inesorabilmente, e intrinsecamente, con la propria origine. Questa esperienza esistenziale e psicologica è insieme ricomprensione, o riconquista, della propria infanzia – “quel bambino che ero” – e affermazione, anzi imperativo, di evoluzione (“o bambino che ero, avanza”), quindi di distacco dalla propria infanzia (“ci siamo / separati”) con inevitabile problematicità (“camminavamo / e ci spiavamo in silenzio”, “ma che cosa ci unisce, adesso?”).
La medesima ditotomia, o meglio duplicazione, si riscontra quando il poeta sembra fare i conti della propria vita, quando riassume nella propria consapevolezza le ore e i tempi passati e agguanta le ore e i tempi che ancora rimangono: forse pochi (Il poema incompiuto). “Ma dove si adagerà l’alba imminente?”. Imminente, infatti, è l’alba, e l’alba per il poeta è il suo tramonto (“il mio crepuscolo”) – è detto nella medesima lirica -, come del resto la notte è l’inizio del giorno (“la notte è il mio mattino”). In un momento cruciale o magico della vita – che non è necessariamente prossimo alla morte e che non è detto sia irripetibile -, accade che il soggetto percepisce la scomparsa di se stesso come rappresentazione di sé con cui era vissuto fino allora (“oggi muoio per me stesso dentro di me”); è come se diventasse un altro, un altro che – con rappresentazione di sé diversa – vive nel soggetto che è tramontato o “morto”. Un trapasso o una trasfigurazione di tale portata sembra che abbia come luogo magico il deserto (“lo spazio desertico”), o fisico (il “Sahara”), o interiore: quel “luogo” esistenziale che “si svuota” d’ogni cosa passata e dove ogni rappresentazione passata di sé è ormai percepita come “illusione”.
Forse è in questa esperienza profonda – non peregrina rispetto alla “follia”, intesa come totale superamento della propria finitudine mondana – che si può intuire la “valenza positiva e sorprendente del principio di contraddizione”, per riferirmi al puntuale concetto indicato, con felice espressione, da Paolo Ruffilli (in quarta di copertina). E proprio in questa lirica si legge il sintagma – l’espressione intorno a cui fondatamente Paolo Ruffilli ha focalizzato la sua riflessione – che dà il titolo alla presente raccolta di poesie: “l’illusione dei miei passi”. Paolo Ruffilli sottolinea, appunto, la contraddizione identificativa tra la realtà – i “passi” fisici, quindi reali – e l’irrealtà dei passi stessi (la loro “illusione”), il loro sussistere come pura immaginazione. Questa contraddittorietà dell’essere – esatto contrappunto al “principio di non contraddizione” della metafisica e della logica di aristotelica ascendenza e principio intrascendibile nella realtà naturalistica – spiega anche, per l’appunto, il dinamismo cui abbiamo fatto cenno sopra: l’essere vivo è essere morto e l’essere morto è essere vivo; il mattino è la sera e il crepuscolo è l’alba. Possiamo ancora dire: la fine è l’inizio e l’inizio è la fine. Ciò che è in una dimensione è la propria negazione in una dimensione opposta, e viceversa; così, per vedere se stesso il poeta deve uscire da se stesso, per conoscersi e trovarsi per ciò che è sotto un determinato aspetto – quello del profondo vissuto – deve perdere il proprio punto di vista sotto l’aspetto opposto – quello della esistenzialità mondana.
Da notare tuttavia il forte contraltare che si staglia di contro – o in aggiunta – a questa dialettica delle opposizioni delle parti: la corporeità come “legame materiale, tangibile, tra l’uomo e la natura”, così importante, nella ideazione poetica e nell’esperienza del soggetto poetante, che la poesia stessa “si fa interpretazione di questa scoperta” (Paolo Ruffilli, in quarta di copertina). Ho parlato di contraltare, quasi che la dialettica io-non io, come ogni altra dialettica esistenziale, che sembra risucchiare tutto nella evanescenza, trovi un ancoraggio, direi materico, nel rapporto stretto tra uomo e natura. Ma ho parlato anche di “aggiunta” alla dialettica delle opposizioni, poiché la trascendenza della coscienza – che genera la dialettica esistenziale – è possibile essa stessa se è ancorata all’immanenza della natura. Ed infine – bisogna dirlo – la poesia consiste proprio nel documentare – in senso estetico e sul piano della immaginazione – la propria fattualità nel mondo, il contatto con la naturalità esistenziale. Tale contatto dell’uomo con la natura è nella poesia di Adonis così diffuso e così stretto, che pare proprio di assistere ad un processo di osmosi tra l’uno e l’altra. A me qui basti ricordare una immagine, potente e quasi imperiosa, in cui la parola – e la parola è l’essenza stessa del poetante che si fa manifestazione di sé, è cioè l’epifania della coscienza del poeta – assume, nel desiderio dell’autore, “il volto del mare” (Il colore dell’acqua).
Occorre però insistere sulla dimensione del principio di contraddizione, perché esso innerva e pervade tutto lo scritto poetico di Adonis, in questa raccolta. Anche la “rivoluzione” – così nell’omonima lirica – è trattata in un continuo interscambio di valenze, quale l’annientarsi del poeta che ha cantato “nella voce dei vivi” e ha inciso “nel silenzio dei morti” – anche qui il contrasto delle opposizioni che concorrono alla formazione della realtà -, la cui “cenere” dell’annientamento, tuttavia, pone l’interrogativo se non sia proprio essa che “crea un viso”, cioè se non sia proprio l’annullamento a formare una identità.
Mi fermo qui, sotto questo punto di vista, per non dilungarmi; ma un’osservazione va poi rivolta, per non lasciare inesplorato un altro tassello di questi densissimi e insondabili versi, alla pregnanza della “parola”. La parola è il mezzo di comunicazione e diventa immagine della poesia stessa. Grazie ad essa, e cioè al “canto” della poesia, alla estrinsecazione della parola interiore o della ideazione intima, si può dire che il poeta, appunto, sussiste in mezzo al mondo: il poeta vive. Ma la parola può anche annientare colui che la pronuncia, come è insinuato nella stessa lirica La rivoluzione; o forse può annientare la realtà stessa che la parola canta, cioè può essere la “cenere” dell’annullamento. Il medesimo linguaggio ritorna in un’altra lirica, Un saluto, in cui l’autore si rivolge alla parola apostrofandola come “cenere”. In questa lirica, l’autore si chiede se ci sarà mai “il bambino della mia storia”, cioè quell’aspetto di sé che s’identifica e al contempo si contrappone a se stesso. Ebbene: se la parola crea e annulla, è proprio nella identità-contraddittorietà della parola che va cercata l’identità-contraddittorietà di se stesso.
Molti altri sono i temi che è possibile enucleare e che sarebbe necessario scandagliare di questa intensissima e poliedrica scrittura poetica di Adonis. Ma voglio concludere ribadendo soltanto che quelle presenti sono composizioni che vanno lette a lungo e sviscerate con sapienza disciplinare ed anche con intuito esperienziale. [Francesco di Ciaccia]
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