Zanzi, L., Sacri Monti, 1990
Luigi Zanzi, Sacri Monti e dintorni. Studi sulla cultura religiosa e artistica della Controriforma, Prefazione di Dante Isella, Milano, Jaca Book (Edizioni Universitarie Jaca Book 70), 1990, – XVI+637, «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni Milanesi», 29-30 (1992) pagine 135-136.
In sovraccopertina: realizzazione dell’Ufficio grafico Jaca Book
Testo della recensione
La cosiddetta “storia locale” assume un ruolo storiograficamente estensivo, se i suoi connotati assurgono ad emblema di un’epoca, i cui valori la “località” manifesti e “dimostri” come incarnati in un ambiente spaziale e culturale. Per evitare il rischio che una “universale” rappresentazione storiografica (ad esempio, la “medioevalità”, la “controriforma”, ecc.) assorba “a priori” nel suo schema valutativo i singoli fenomeni della “località”, occorre scoprire tutta la documentazione possibile sull’evento particolare e criticamente esaminarla. Tale presupposto è avvertito così fondativo per ogni lavoro storiografico sulla ‘località”, che, al fine di garantire per il futuro sia i “dati” in sé, sia, con essi, quella “memoria collettiva” per cui Croce ragionava di “contemporaneità” storica, oggi molti studiosi si sono attivati per “fissare” gli elementi della località – e un esempio eccellente è offerto dall’Istituto Interregionale di Studi e Ricerche della Civiltà Appenninica. Luigi Zanzi, trattando dei Sacri Monti dell’arco prealpino lombardo-piemontese all’epoca dei due Borromeo, ha dovuto affidarsi ovviamente ai documenti d’archivio rintracciati; ma ha anche spaziato enciclopedicamente, per contestualizzare compiutamente il fenomeno, nel rigido periodo dell’“ambrosianità” carliana e federiciana, nella fenomenologia storica della devozione popolare e, sempre “periodizzandone” le tipologie, nella “grande” storia del pellegrinare, dal Medioevo all’età moderna. L’autore insiste infatti sull’euristica storica per una corretta attribuzione di “senso” ai fenomeni, e cioè per una interpretazione non idealistica della storia; far emergere gli elementi “fattivi” del fenomeno nei loro correlati sincronici e “seguirli” anche nel loro sviluppo diacronico. E ciò che con “visiva” prepotenza emerge in quel “sistema sacromontano subalpino”, senza pari rispetto ad altre regioni, è l’istituzionalizzazione, anche matericamente, della cattolicità in un confronto, e scontro, con l’infestazione proveniente dal Nord: la “fede operata” conclama, nell’ecclesiologia federiciana, non tanto le verità cattoliche in sé, quanto la loro “pratica”, con concorso pedantemente disciplinato di un popolo in preghiera “processionante” e con ritualismi estesi all’atto oratorio. Difesa e “contro-offensiva”, dunque, nella “dimostrazione” di quanto superiore fosse la “fede” cattolica. E giova rammentare come Federico Borromeo, poi, abbia ritenuto “dimostrata” l’inferiorità luterana” dal fatto che mancasse ai “nordici” quella “grazia estatica” che epifanicamente comprovava, all’epoca, la “vera religione”.
Il costruttore “arcigno” di una ambrosianità eretta a “societas” cattolica, pregiudizievole per una rifondazione “moderna” della chiesa universale, fu Carlo, stratega dai moduli chiaramente “barocchi” (puntualizzati dall’autore secondo un presupposto teorico di periodizzamento non tipologico-essenziale e deduttivo, ma storico-funzionale e “categoriale”). Il “genio” del gran Carlo appare rivolto fondamentalmente a dare alla politica un valore “ascetico” nel seguente senso “barocco”: posta al servizio della “cattolica” causa, la “mondana” politica cambia direzione e diventa “buona”: coonestazione dell’arte di governare, compresa la “ragion di chiesa” (con spostamento di intenzione candidamente astuto), “uso religioso” di strumenti “mondani”, con la convinzione che il mondano si costituisca di per sé in religioso in forza dello “scopo”, e conseguente “mondanizzazione” dell’azione ecclesiale. (Se tormentare un uomo, per carpirgli una confessione a fini di potere ‘laico”, è male, fare la stessa cosa, per salvare il potere della chiesa, purifica l’anima ed è un bene). La costruzione di una “societas sacra” comportava il concetto di una “temporalità” e “spazialità” come luogo “cattolico” dell’eterno: il “divino” arriva al cuore passando per le “pratiche” istituite. Da qui le architetture monumentali, i riti ossessionanti, le scenografiche processionali, epifanie “mondane” (cioè storiche) di un Dio che è Dio tutto cattolico. L’esito, per cui la religione si sarebbe concentrata su forme esterne, era stornato dal Borromeo facendosi egli stesso trascinatore “carismatico”: senza peraltro che quell’esito fosse evitato per davvero. La religione, mediante una “fisica” consacrazione che “sacralizzasse” tempi, spazi, gesti e fatti, si “corporeizzava”: esorcizzando, e demonizzando, tutto il bello, tutto il gustevole, tutto l’ammirevole ed il “piacere” che fossero “al di fuori” delle cattoliche “bellezze”, “fisicamente” messe in mostra.
Così delineata – in estrema sintesi – la configurazione “barocca” della chiesa dei cugini Borromeo, vien da chiedersi se e quanto sia l’“animus” barocco a perdurar nel tempo, oppure se, e quanto, quelle modalità criterio-logiche e operative siano caratteristiche non già dell’epoca”, ma di un altro àmbito “locale”: quello della Curia (intesa come “direzione” centrale delle dottrine e delle morali nella chiesa “storica”). [Francesco di Ciaccia]
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