Gneo, C., 1990
Corrado Gneo, Riflessioni su La consacrazione cristiana secondo il Vangelo di Giov. 13-17, Roma, La Posta di Padre Mariano, 1990, pagine 158, «L’Italia francescana», 3 (1991) pagine 209-211.
Testo della recensione
Il ciclo di conferenze di Padre Corrado Gneo per le persone consacrate scorre sul filo del testo evangelico e si articola in riflessioni che oltrepassano anche il cerchio dei tradizionali fruitori. L’impostazione si sradica dal consueto sentimentalismo religioso di marca sei-ottocentesca, oggi meno in voga, eppure inizia con la «tenerezza psicologica» e la «totale disponibilità del Signore Gesù» che «salva» il cieco di Gerico: come a dire che basta prendere il Vangelo, e ci si trova l’«umanità e la benignità del Salvatore nostro». il quale non ha detto al cieco di fare chissà che, ma di «dirgli che cosa voleva», cioè che cosa gli andava a genio, che egli facesse per lui. E il cieco «prese a seguirlo nella strada».
Un concetto importante sottolineato dall’autore è che «la persona diventa consacrata con adesione battesimale alla conversione»: consacrazione che poi si sviluppa «con l’abnegazione» e si attua «nella missione», e ciò grazie all’azione dello Spirito Santo e con una «purificazione costante». Ponendo l’accento su una azione « esistenziale » dello Spirito Santo, in quanto Egli «spiri» la persona ad «essere-verso-Dio», ed inoltre, per la stessa impostazione del discorso generale, connettendo strettamente la speciale, o istituzionale, consacrazione con quella fondamentale ed essenziale del discepolo cristiano, l’autore evita alla configurazione della prima una natura, a sé stante, di «valore aggettivato».
Anche a tal fine l’autore pone nel modo seguente il processo del percorso spirituale, in qualunque condizione effettuale esso si collochi: prima «capire». poi «essere» e quindi «fare».
Dall’insieme deriva che la consacrazione non si presenta al soggetto come un vanto, che conceda di «giudicare» gli altri – interessante l’analisi dell’episodio della Samaritana -, ma come un «dono» (non in senso carismatico) di Dio, il quale comunque distribuisce «le grazie» non perché qualcuno stia sopra a qualche altro (interessante anche la richiesta della madre dei due discepoli sul «posto» dei suoi figlioli), ma perché tutti siano sullo stesso piano di «fratelli», con beneficio collettivo e vicendevole. Senza avallare pruderie: e la «lavanda dei piedi» lo insegna. Tanto che l’autore sente il bisogno di incalzare: «non ci sentiamo debitori ai fratelli», «non ci vogliamo sentire in vero debito», perché, per l’eccedente coscienza di essere «maestri» e «costituiti in virtù», non avvertiamo neppure che, alla fin fine, se non «ci lasciamo lavare i piedi» («da chiunque, superiori, fratelli, sorelle, sudditi, peccatori») non è perché sono puliti, ma perché son troppo sporchi.
Limpidezza, dunque.
Anche l’obbedienza va vissuta in clima di fede e non di diritto: ed è la fede radicale che sa che Dio ci vuole in un determinato posto, un posto che magari noi non sappiamo o non abbiamo scoperto, e che magari scopriremo attraverso un fratello che ha l’ufficio di «servire» (il ministro), così come nell’ordinamento generale del mondo e della distribuzione dei «doni» dello Spirito non siamo noi che fissiamo ad un capello la data in cui deve crescere o deve cadere.
E se Francesco d’Assisi protestava di voler essere «nelle mani» del suo superiore, per modo «che io non possa andare o fare contro la volontà di lui», non era certo per un infantilismo regressivo, per un vittimismo masochista, ma per la consapevolezza che la volontà del Signore compenetra la storia delle cose e degli atti umani, sbagliati o meno, comprensibili o meno, alti e bassi (E lo dimostra scenograficamente nella girandola fatta fare a fra Matteo). Ugualmente, la castità ha senso non come rinuncia più o meno cervellotica – allora, avrebbe più senso una rinuncia richiesta dalla vita ingrata -, ma come attuazione di amore: un amore che, coltivato «con Cristo», diventa «comunione» con gli altri. Certo, un particolare modo di «amare». Ma «amare», deve essere.
E qui cade a piombo una considerazione che sembra non c’entri: «e se il trasgressore non vorrà ascoltare neppure l’assemblea, sia per te come pubblicano e peccatore». Ormai, l’esegesi sostiene che i! senso è questo: «per te», il trasgressore deve poter essere sempre accessibile, anzi sempre «amato» come Gesù ha amato i pubblicani e i peccatori. Con la castità «consacrata» la questione c’entra. Infatti, che specie di cosa sarà mai diventata quella «rinuncia» alla sessualità, quando si arriva ad escludere dal proprio cuore un fratello «peccatore»? A che serve fare o non fare qualcosa, se il cuore non palpita più? E tutto si assomma nella povertà, soprattutto francescanamente intesa. Poiché non basta, neppure, vivere come pezzenti – se pur così fosse -, se non c’è una spogliazione totale delle presunzioni e una rottura degli steccati: la possessione più radicata e radicale è quella del «cuore» sul proprio stesso «cuore», cioè al proprio ruolo, alla propria immagine, alla propria «diversità», addirittura.
E ben si ricorda ormai, dopo Raoul Manselli ed ora con Giovanni Miccoli (per citare studiosi laici), che la scelta «di vita evangelica» e povera fu attivata e compiuta da San Francesco, quasi come un carisma di rifondazione evangelica, nella scelta di «far pari» con il lebbroso, di farsi «uguale» vincendo la ripugnanza: della carne, sì, ma anche del «sangue», cioè sia dei sogni di gloria cavalleresca, sia dei sogni di gloria «mo-nastica».
Venne nel inondo ed abitò fra noi: più poveri dì così, si muore. Ecco dunque che in buona sostanza l’autore, per nulla escludendo la possibilità di diversi stati di vita formale, riconosciuti dalla Chiesa e confermati da lunga tradizione cristiana, assesta un po’ le coordinate: la serietà, nelle questioni di vita, di spiritualità e di «verità», è una cosa che si fonda nello Spirito di Dio. Con «gioia» di tutti. [Francesco di Ciaccia]
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