Dini, Vittorio, a cura, 1990
AA. VV., Luoghi e voci della memoria collettiva. Per un archivio dei saperi e dei vissuti della cultura tiberina toscana: documentazione raccolta nei comuni di Sestino e Monterchi dall’anno 1978, a cura di Vittorio Dini, gruppo redazionale e scientifico: Tiziana Bartolucci [et al.], [San Giovanni Valdarno, Litografia Valdarnese], 1990, pagine 421, «Studi e Fonti di Storia Llombarda. Quaderni Mmilamesi, 29-30 (1992) pagine 117-119.
Testo della recensione
La storia locale sta catalizzando sempre più l’attenzione degli studiosi in parallelo alla nuova concezione storiografica di “località”. Per “località” oggi si intende una realtà socio-culturale (economico-lavorativa, pubblica, privata, esistenziale), profilata su dimensioni collettive e individuali geograficamente e cronologicamente circoscritte ma intrinsecamente connesse con le problematiche “universali” della vita associata e individuale, indicizzata generalmente, finora, sui nomi dei “grandi” popoli e delle “grandi” personalità. E poiché una storiografia che intenda mantenersi entro un impianto descrittivo e categoriale, sfuggendo a una lettura essenzialistica (alla Hegel) dei processi evenenziali, si fonda sul documento; e poiché, a sua volta, il documento tanto più incarna una certezza, che sia prossima alla verità, quanto più coesiste con gli avvenimenti, per tal motivo uno dei momenti presuppositivi della storiografia è la documentazione coeva. E non si dà testimonianza migliore di quella dei soggetti operativi di un determinato contesto geo-socio-culturale. Con questo proposito – per il vero ambizioso quanto oneroso e benemerito – e cioè di esporre alla luce i tesori d’archivio e più ancora di fissare per l’archivio la consapevolezza e l’esperienza della gente “locale”, un comitato di studiosi ha istituito un Centro archivistico per la raccolta (non sempre facile) e per la catalogazione (faticosa) dei documenti: i documenti della “memoria collettiva” o, come amo anche dirli, i “referti” di una civiltà mnesticamente ritrovatasi. Che qui non ci si trovi di fronte a “reperti” (cioè all’archeologia), è evidenziato dal fatto che la “memoria” scorre al massimo su quattro generazioni e che il dato è qui rivisitato dalla risonanza attuale. Alla “contemporaneità” (crocianamente) della storia potremmo dunque ascrivere questa opera di grande ambizione, di consapevole audacia e di giovanile spirito. Dalla segnalazione dell’indice, alla quale mi obbliga il dovere di “documentare” la monumentalità dell’opera e la sua multidirerazionale articolazione, si può intuire la mole e l’incisività del lavoro. Il libro comprende un apparato di fotografie, che ricostruiscono eventi, personaggi, luoghi e situazioni dell’universo locale; una serie di scritti diaristici, epistolari e memorialistici personali, familiari e associativi; una descrizione di oggettistica (strumenti di lavoro, apparati devozionali, ecc.); una lucida individuazione (senza interferenza interpretativa esogena) del senso sociale ed affettivo assegnato agli oggetti dalle generazioni diverse; una raccolta di memorie dei luoghi e degli edifici privati e pubblici, ed un’altra di memorie orali, tradotte in “documento” mediante le interviste criteriologicarnente rigorose. Come si comprende, soffermarsi su questi “dati”, tutti interessanti – e vorrei dire culturalmente “curiosi” e stimolanti – non è fattibile in poche parole. E tuttavia faccio un’eccezione per la chiesetta della Madonna del Romituccio: trovata un’immagine della Madonna in un’imprecisabile epoca da non si sa quali pastorelli in un sassoso luogo selvaggio, e quindi trasferita nella chiesa parrocchiale, il giorno dopo l’immagine “fuggì” via e si ritrasferì “motu proprio” nel posto originario. Dove fu poi costruita la chiesetta. Più plausibile, per modo di dire, di altri “trasferimenti miracolosi” di altre chiesette. Questa simpatica storia non ebbe altrettanta eco. Perché? Non discuto. Ma segnalo come gli interventi introduttivi degli studiosi, che al libro hanno premesso considerazioni storiche puntuali, proprio a interrogativi di tal genere sono in grado di offrire segnali di risposta. Giancarlo Renzi, delineando una chiara e precisa panoramica storica su Sestine dall’Unità ad oggi – come Laura Sonni su Monterchi -, immette lucidamente nelle dinamiche di un paese che, già “terra blasonata”, è ridotto a una “marginalità” accentuata poi dall’industrializzazione della società. E fa molto bene il Renzi a sottolineare non solo gli aspetti socioeconomici oltre a quelli politici, ma anche la situazione viaria, del resto intersecata con i processi sociali e politici: la fortuna, e non solo economica, di un evento o di un luogo passa attraverso le vie dì comunicazione, e queste a loro volta la incrementano. Allo stesso fine esplicativo sono rivolte le esemplificazioni di indagine esposte da Marco Renzi, da Giancarlo Renzi e da Maurizio Giustini; esse non solo hanno un carattere contenutisticamente introduttivo, notificando dinamiche collettive ed impellenze esistenziali, ma anche svolgono una funzione dimostrativa dei presupposti metodologici del rilevamento dei dati i quali non risultano astri vaganti in un cielo ignoto, ma tasselli di un universo locale profondamente studiato, che di essi si compone e su cui al contempo si fonda. Ciò emerge anche nell’intervento di Giustini sulle tecniche di ricerca sul campo: tra le considerazioni sulla metodologia del lavoro di rilevamento sono focalizzate interessanti connessioni tra “paupertà” e ritualità, con stagliati fenomeni di pietà popolare.
In sostanza, il rilevamento dell’ethos di una collettività – avverte il Dini nell’Introduzione – soprattutto se tradizionalmente condannata all’oblio come quella contadina e subalterna, è orientato al recupero di quei valori e di quelle esperienze che, in una temperie storiografica felicemente mutata, possono contribuire alla comprensione e all’analisi di una civiltà epocale. Ma non è solo una questione di interesse storico-intellettualistico: questo recupero – insiste Vittorio Dini – ha il volto di “salvezza” antropologica, in un’era in cui indifferenza e consumismo, facendosi “totalizzanti”, tendono a sommergere, censurare – rimuovere psichicamente, direi addirittura – un passato, il passato delle “proprie origini”, come “inutile”. O ingombrante. In un’era – dirò – in cui, contro un democraticismo parolaio che vuole l’universalità della gente soggetto di storia, infierisce con subdola prepotenza propinando l’“imago” efficiente dell’economia e della politica, che sono i nomi degli strateghi carismatici E viene alla mente, allora, seguendo questa operazione del Centro, la nota osservazione manzoniana premessa a modo di manifesto storiografico al romanzo. [Francesco di Ciaccia]
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