Villa, Corrado, Semi di vita
Ti amo ogni giorno di più, Introduzione a Corrado Villa, Semi vita, Milano, Prometheus (Polimnia 37), 2010.
Testo della Introduzione
Le liriche della presente raccolta esprimono con limpidità l’opzione esistenziale di Corrado Villa: quella di amare. Amare nel senso più ampio del termine (“l’amore che copioso da sempre / elargisco”, Pellegrino di sogni); ma la maggior parte di quest’opera poetica è tuttavia assorbita da un genere specifico di amore.
È l’amore per la sua donna, è un canto per la donna, manifestato attraverso i vari atteggiamenti e sentimenti, le varie sensazioni e convinzioni. L’ideazione poetica accosta momenti e aspetti della relazione reale, ma offre anche occasione perché si possano scandagliare alcune dimensioni più profonde, cioè esistenziali e sostanziali, del vissuto d’amore. Io voglio iniziare da queste, poiché da esse traggono senso, e in esse affondano, tutte le espressioni concrete dell’amore.
Esistenzialmente parlando, la vita interiore è sempre lontana dalla moltitudine: è solitaria. L’io profondo non si confonde col mondo circostante.
La solitudine dell’io non è, però, senza la persona amata: in questa dimensione interiore, l’uno e l’altra sono legati alla stessa vicenda dell’animo, in una congiunzione intima e reale.
È per questo motivo che il poeta percepisce, proprio nel suo esistere come individuo e come spirito, la partecipazione della persona amata: “con te”.
“Con te”, io esisto.
Io sono, perché “con te” (Affollata solitudine).
Nella “solitudine affollata”, in cui ciascuno è in qualche modo lontano perché la moltitudine non permette il contatto personale, lei tuttavia è con lui: a tu per tu.
Di fronte.
E soli.
Come non esiste, per chi ama, lo spazio che separa, così non esiste il tempo che allontana. Nell’interiorità della vita affettiva – che è amore portato ai confini del tempo –, il tempo non ha dimensioni: è un attimo.
Un “attimo di eternità” (Attimo).
Nel flusso della coscienza, in effetti, non ci sono “tempi”: ci sono “presenze”, e tutto è presente; e presente è, in questa dimensione d’amore, appunto l’altro, il “tu con me”, sempre in un
“attimo
da vivere con te” (Attimo).
In questa esperienza intima ed umana il fluire del tempo mondano, quello del vivere molteplice e affaccendato – o affaticato –, sprofonda nell’infinità – o unicità – del tempo senza tempo, dello spazio senza spazio ed allora si ha la coscienza di amare “oltre il tempo e lo spazio”.
A dare questa sensazione segreta può bastare un qualsiasi contatto, o fisico o mentale, sia pur minimo. Ed è
“[…] un fremito di piacere
assaporare il tuo profumo
o avvertire la presenza della tua proiezione mentale” (Oltre il tempo e lo spazio).
In una lirica, la struttura linguistica e stilistica s’avvicina a quella d’un testo di canzone, nel ritmico ritornello e nella musicalità dei versi e degli accenti, con l’esito, emozionante, di esaltare il sentimento espresso in simili parole:
“il poeta che ti amava
e che ti ama”;
“che ti ama e ti amerà” (Ancora in me),
in cui l’intreccio dei tempi verbali sembra congiungere musicalmente e linguisticamente una vita d’amore assorbita e assorbente. Infatti, la totalità e la perennità – la globalità temporale ed esistenziale – sono dichiarate questa volta con un lessema che rimanda al leopardiano “lungi m’ispiri” (senza la tonalità emotiva, tuttavia, del solipsimo del Recanatese).
Il tempo cronologico, nondimeno, resta: resta anche per chi, in tutto il proprio essere, è dominato dall’amore. Ma nell’intimo del proprio animo il succedersi del tempo sembra fatto anch’esso per cementare e unificare la coscienza dell’amore, e
“mi accorgo di amarti ogni giorno di più” (Crepuscolo invernale),
come dice l’Autore in un verso semplicissimo e profondo come un abisso.
Tutto può essere iniziato da un incontro, casuale quanto fatale, uno di quegli incontri che superano ogni strategia: “E fu immediata simpatia!” (E fu immediata simpatia).
Ciò non significa che il percorso dell’amore sia privo di momenti difficili, di tensioni, di tratti irti di spine: nell’intimo, l’amore è fuori dal tempo e dallo spazio, ma la sua vicenda vive entro le dimensioni del divenire. A volte – non importa se all’inizio del percorso o dopo anni, magari a metà del cammino –, ci si può sentire lontani: come il sole e la luna. Una tale condizione emotiva risalta vivida, nella struttura analogica dell’ideazione poetica, attraverso l’immagine di un cielo che sembra diviso a metà: da una parte, il sole che manda gli ultimi bagliori che “arrossano il cielo”; dall’altra, sullo sfondo di “una catena montuosa”, la luna che brilla, una luna
“[…] strappata a metà,
sezionata,
violata,
straziata…
[…]
E nuvole…
nuvole tra di noi…” (Difficile incontro).
Quando cade una cesura tra noi (“Tu… Io…”) e le “nuvole” s’interpongono a segnare la separazione, ogni metà di noi due – sembra dire il poeta – ne patisce le conseguenze: l’anima è come martirizzata nello strazio della lontananza.
Le spine nel rapporto tra due che si amano appartengono alla normalità della vita, per le diversità di indole, di abitudini, di gusti, di sensibilità, di cultura: dal magma delle difficoltà di vivere insieme si parte tuttavia per il percorso – e questo è il miracolo d’amore – che porta alla conoscenza reciproca e ad una vita condivisa.
Da lei, infatti, egli trae la linfa per essere uomo, e senza di lei egli non avrebbe la vita,
“perché non ho presente,
né passato, né futuro
se non in te” (Dopo il diluvio).
Si tratta di una percezione fondante che porta lui a cercare lei, a esplorare il mondo di lei, esteriore e interiore, per quanto diverso esso sia,
“superando ogni limite temporale
ogni limite morale
ogni limite umano
ogni limite sociale” (Dopo il diluvio).
L’esistenza – sia nell’Eden, sia sul suolo delle vicissitudini – è fatta dell’uno e dell’altra insieme. Per tal motivo l’uno non può vivere senza l’altro, per cui il poeta si chiede, con gioia ma anche con sconcerto, proiettandosi nel futuro:
“Come può il mio cuore
continuare a battere
se non in te?
Come può la mia vita
proseguire come prima
dopo te?” (Come può).
Può apparire strano, ma una causa che non lacera soltanto, ma tiene addirittura distanti chi si ama è la dualità – o distonia – che penetra proprio nella struttura dell’essere umano, “tra mente e cuore”, “tra ragione e desiderio”. Per coloro che si amano profondamente, l’“io” e il “tu” è come se facessero parte della medesima identità esistenziale, ma, proprio per questo, se una parte della propria sfera interiore fa resistenza addirittura a dirsi quanto ami la persona amata (Distonia), l’altra parte di sé è come se non riuscisse a congiungersi con la persona amata: e la propria coscienza sembra lacerata in se stessa.
La considerazione rivolta alla propria donna si propone inoltre in una visione che connota la donna come tale; e questa attenzione conferisce alla raccolta il merito, aggiuntivo, di essere effettivamente un omaggio alla donna.
La donna è “sogno” d’aria, d’acqua, di terra, di fuoco: assomma in sé le caratteristiche dei quattro elementi. La donna è matrice di vita; e alla donna ci si ricongiunge, morendo: poiché è grembo, da cui si nasce, e poiché è come la terra, a cui si ritorna; ed è respiro, ed è ardore. Ella in effetti è “sempre indispensabile”, come l’aria; ed è simile al fuoco, che è “sempre salvifico”. Più poeticamente, l’Autore assomiglia la donna all’aria
“luminosa e tersa e frizzante
come nel soleggiato mattino invernale
dopo abbondante nevicata notturna
in alta montagna”;
all’acqua
“che pura e fresca zampilla da una polla nell’erba smeraldo ad abbeverare germogli di vita”;
alla terra, quale
“bruna, odorosa, calda, fertile madre felicemente pronta alla semina colorata di primavera ricca d’amore e di canti di gioia”;
al fuoco
“che sorge rasserenante da un ceppo […] e riscalda l’anima” (Elementi).
La donna ovviamente è, per eccellenza, portatrice di bellezza. L’Autore lo dice in termini che sembrano di un pittore antico e di un pittore moderno:
“O coperta di troppi veli
o senza veli
mostri sempre
la tua dignità e bellezza” (Donna).
Ma la ragione del valore femminile – la sua “dignità” – e della sua stessa “bellezza” è essenzialmente in rapporto alla “vita”: la donna è portatrice di vita.
“E scopri la vita
e ti apri alla vita
e crei la vita.
E insegni la vita”,
e per la vita ella arriva a rinunciare alla propria vita. Si tratta di una rinuncia che la cronaca non registra, per la quale non si erigono monumenti: è la più normale che si possa immaginare, è la rinuncia quotidiana, è mettere al primo posto le esigenze dei figli, è lavorare per loro. Il suo è un lavoro che si incunea tra ogni altra operazione, azione, ambizione, tra ogni altra oggettività dell’esistere – crescere, invecchiare –, sì che questo lavoro della donna sembra acquistare una valenza non solo soggettiva – tra il sorridere, il soffrire, il piangere –, ma anche oggettiva come la vita materiale, cronologica, fisica. I versi seguenti, martellanti su un lemma preciso, mettono stilisticamente in evidenza il concetto dell’assiduità, della perpetuità, della continuatività, della indispensabilità del lavoro che compie la donna:
“E vivi e lavori e cresci,
e preghi e lavori e sorridi,
e soffri e lavori e piangi,
e ami e lavori e invecchi,
e ancora e ancora lavori” (Donna).
Alla donna – che è la sua donna e al contempo ogni donna – il poeta eleva un canto che egli chiama “ode mistica”, quasi rivolta ad una che pare terrestre deità, ad una che pare “venuta di cielo in terra a miracol mostrare”, come direbbe Dante, a mostrare il miracolo dell’amore “con un solo sguardo”, un sorriso, un semplice “movimento” – dice Corrado Villa alla sua donna – “dei tuoi occhi, o delle tue labbra” (Come).
A mio avviso, il canto più bello alla donna è A te. Questa lirica, che fa venire in mente il testo di una canzone, unisce i richiami simbolici (“fiore”, “rosa splendente”, “petalo / di giglio o di orchidea”, “frutto / invitante e gustoso”, “musica / pittura e poesia”) a quelli realistici, quotidiani, e conclude con un verso tanto semplice e quotidiano – mi viene proprio da dire –, quanto profondo nella sua verità e infine sintetizza con parole comunissime, con una frase d’uso universale, a che cosa porti amore:
“A te penso sempre
ogni giorno e ogni istante.
A te. Sempre!”.
La donna, che non si può non amare per le sue doti magiche, è anche, proverbialmente, un “fiore”: delicato. E qui l’uomo esprime il suo attaccamento con una delicatezza che ha – per stare al paragone – un profumo di donna: quasi materno. Le sussurra:
“lasciati accudire
da chi la tua corolla ama
ma che ama ancor di più
tutto l’essere tuo” (Fiore).
L’amore della donna e per la donna si espande nell’amore verso il frutto, ovviamente, dell’amore stesso. Il sentimento della donna verso il figlio si affaccia in queste poesie come prolungamento naturale del rapporto tra chi si ama e diventa rapporto allargato. Quello del primo contatto tra la donna e il figlio è una sensazione di “estatica felicità”, è una interiore esperienza che illuminerà la vita anche quando essa sarà triste, sofferta; ed allora
“un sorriso ti esploderà tra le labbra
e tornerà a illuminarsi
il tuo sguardo” (Estatica felicità).
L’amore non può, poi, non espandersi su tutte le persone care, anche quando queste non saranno mai più accanto a noi. È un amore che travalica ogni considerazione razionale, sbriciola ogni filosofia e resta attanagliato alla memoria, con l’animo gonfio di ricordi. E questa è una memoria che schianta il cuore:
“Io non so fino a quando
saprò portare nel mio cuore
l’immensità di questi affetti,
di questi volti cari
che più non vedrò” (Volti di lacrime).
Ma se nulla potrà ridarci gli “amati volti” – o almeno non lo sappiamo –, la tenerezza del rimpianto è essa stessa a mettere accanto, ancora, chi abbiamo amato tanto. Questo pensiero è certezza soprattutto in rapporto alla persona che si è amata: quando lui non sarà più in questo mondo e lei sarà ormai irriconoscibile persino a se stessa a causa del tempo che ha arato anche il viso e non sarà più reale la loro partecipazione d’amore sulla terra,
“proprio allora ti starò aspettando” (Future memorie),
le assicura l’amato.
Sembra che, allora, l’amore continuerà davvero per sempre.
C’è, poi, una ulteriore sfera d’amore. Nella lirica che dà il titolo alla raccolta, l’Autore riflette sulle sementi che ognuno sparge nel mondo. Questo pensiero occupa l’animo di ogni essere umano che viva non solo per sé ma anche per gli altri; non solo per il presente ma anche per il futuro; non solo per il bene materiale ma anche per il bene spirituale. Qualche seme è caduto nella terra fertile e ha prodotto frutti – viene in mente pensando ad una famosa parabola –; alcuni semi non sono stati raccolti, altri sono stati ignorati. Anche queste poesie sono “semi di vita”: semi che possono dare frutti di consapevolezza nell’animo di molti. L’assillo di produrre sviluppi interiori in sé e negli altri è suggerito e pungolato anche dallo scorrere del tempo che tutto “involve”, come scrisse Foscolo. E così riflette Corrado Villa:
“[…] quel continuo divenire
che annulla le esistenze
nel più ampio disegno
azzera infine anche te
ed il tuo spazio resta vuoto” (Continuo divenire).
Per tal motivo, forse, ad un certo momento della propria esistenza ci si ritrova ad elemosinare “sogni”, come si esprime Corrado Villa (Pellegrino di sogni): sogni per vivere ancora, e per sempre.
L’amore, l’amore in tutte le sue espressioni e in tutte le sue potenzialità, permette anche questo. Anzi, permette proprio questo.
A tutti.
Nessuno è escluso da questo beneficio (pagine 5-15). [Francesco di Ciaccia]
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