Tacconi, Giovanna, Argilla rosa
Torna a fiorir la luna, Introduzione a Giovanna Tacconi, Argilla rosa, Milano, Prometheus, 1993.
Testo della Introduzione
La stagione della “poesia pura”, solo qualche decennio fa imperversante su tutti i fogli e fogliettini poetici, oggi è forse in parte oltrepassata. Sembrava che, se uno voleva farsi “rispettare”, dovesse vergare solo versi stilizzati al massimo: ad un paio di metafore incompiute, il compito di velare e svelare un mondo interiore scavato da anni di tensioni e di immaginazioni. Il “mistero” sembrava alle porte di ogni poesia.
C’è subito da dire che l’urgenza della poesia pura, fra cui si colloca il cosiddetto ermetismo italiano, aveva indiscutibili ragioni di validità. Direi imperiose. E non già per motivi estetici e formali: in primo luogo c’era la necessità di dire il non-dicibile. La causa profonda di quella struttura poetica si radicava nella natura del vissuto esistenziale: quello che l’animo sente non ha “parole”, non ha le parole che si formano con l’intelletto. Nate dall’astrazione mentale, che è quella della logica, le parole dell’intelletto esprimono i “concetti” dei sentimenti: non il “sentito” dei sentimenti. Il vissuto coscienziale è più facile “dirlo” con uno sguardo, con il corpo, col silenzio… Ma si era arrivati spesso a scrivere solo i “silenzi”…
Per contro, c’è sempre stata nell’umanità, e c’è tuttora, la voglia di dire agli altri “tutto” quello che passa nel proprio animo commosso: ora esaltante, ora umiliato e franto, ora fiducioso e allegro. Voglia di dire: cioè di dipanare la matassa delle fantasie, delle immagini, magari così semplicemente, come vengono. È un bisogno di comunicare di più? È una ricerca del contatto con gli altri, non solo sui punti più insondabili del vissuto ma anche sull’intero immaginifico mentale? Forse. Del resto, anche questo è un bisogno umano. Certo: una corrente poetica contemporanea è pervenuta a decretare l’impossibilità della comunicazione verbale, portando la poesia alla parodia della “parola”. E una scuola di psicoanalisi – esiste uno stretto legame tra la scienza dell’inconscio e la poesia – usa il “silenzio” quale metodo di relazione coscienziale. Tutto è valido: e soprattutto è naturale che i vissuti più “nascosti”, quelli che eludono la coscienza, siano raggiunti con criteri che trascendono la coscienza.
Però, quello che oggi ci si pone è il problema se la poesia non possa collocarsi un po’, anch’essa, al livello dei discorsi, o delle effusioni, che si fanno a mamma e papà, ad un amico, ad un lettore qualunque: i quali non possono “indovinare” tutto il “non-detto”, perché per entrare nel segreto dei vissuti intimi occorre conoscere così bene le situazioni esistenziali del soggetto, che forse neppure mamma e papà, o il caro amico, immaginano. La poesia “pura”, dunque, serve bene ad alcuni casi in cui l’“illuminazione” coscienziale si presenta davvero folgorante: casi privilegiati. Pochi, nella vita degli uomini che vivono impastati di sentimenti comuni, chiari, limpidi, semplici, comunicabili, traducibili con le comuni parole della normale vita della mente e del cuore umani.
Ma i più vogliono leggere e capire immediatamente: un po’ con la testa, un po’ col cuore, senza aspettare tuttavia di vivere l’estrema esperienza esistenziale di chi, per la profondità dell’accaduto interiore, non ha potuto “gridare”, giustamente, se non “una” parola.
C’è un rischio, e c’è un’obiezione, per la poesia del “discorso”. L’obiezione è che ci si chiede a chi possa interessare la storia di un cuore, di una fantasia palpitanti, narrata per lungo e per largo. Non è una obiezione: interessa a chi interessa. Se non interessa, uno non la legge. Il rischio è che lo scrittore si giri e si rigiri su se stesso, con il gusto più di “raccontarsi”, di “dirsi” la matassa della vita e delle fantasie, che non di dare – anzi, di darsi – l’essenziale. Ed è vero. In effetti la differenza tra la non-poesia e la poesia, tra la cronaca fatta dal figlio al suo papà e la “cronaca” esposta da un Leopardi (per esempio) su quel capolavoro di fanciulla – vera e immaginifica! – di una “Silvia” sta in questo: che gli ipotetici “occhi ridenti” della ragazza, della quale il papà vuole almeno sapere qualcosa, non interessano se non a quel genitore zelante e protettivo. Quelli della – vera e fantasiosa! – ragazza leopardiana interessano anche coloro che della vita del Leopardi non sono per nulla preoccupati. Perché? Perché quegli occhi racchiudono il “sogno” universale, quegli occhi trasmettono ciò che l’umanità intera attende ogni giorno, che sogna anche di notte, che ha attaccato alla carne e dentro il sangue e a cui “anela”, con l’ultimo respiro, mentre, morendo, protende lo sguardo al sole (per dirla con il Foscolo): la giovinezza di speranza, i primi palpiti umani, il primo sussulto di fronte all’altro “fuori-di-te-che è-in te”.
Le poesie di Giovanna Tacconi rientrano nella “poesia” per la forza che hanno di comunicare forti stati d’animo, potenti aneliti, bisogni d’un passato quasi carnosi, ricordi autobiografici che non si spengono. Esse riguardano una propria vita personale, incarnata in situazioni precisate ma cariche di tensioni che scaturiscono da una genuina dimensione antropica, salgono dal profondo dell’animo e producono consonanze ora emozionali, ora immaginifiche in chi le legge. Per questo motivo mi pare appropriato per la presente raccolta il titolo introduttivo di “torna a fiorir la luna”. La luna, simbolo in qualche modo di una poesia distesa, memorialistica, sognante, torna a fiorire nell’uomo e nella forma poetica, nel linguaggio fatto di penombre e nella natura come paesaggio, “alla danza segreta di verbene odorate e molli ortensie”, “che esala dal cielo la sua fiaba antica” (Torna a fiorir la luna).
E in questa notte “di piuma”, così sensualmente definita, traspare la nota essenziale di questo mondo immaginifico: quella di una controllata ma possente vitalità sensoria. È da questa caratteristica che mi piace iniziare la presentazione, perché essa contiene, forse, l’elemento psicologico più determinate, che fa pensare ad una poetica dell’estetismo, della sensitività. La percezione si affina al limite tra il sensitivo e l’estetismo simbolico, come quando nella citata poesia si sente che
“Dorme la rosa rampicante al quieto
riparo della cinta
dormono caste nel respiro lieve
della lavanda
le camicie di lino, trasparenze
di dolcissima trina”.
E qui si avverte che l’“odorosità” ha una intima relazione tra realtà naturalistica e sentimento umano: la rosa ha un sonno “quieto” – “al riparo”, nella sicurezza domestica! – come quello di chi la sta sognando, mentre le camicie di lino rimandano più propriamente all’uomo, che attraverso gli indumenti sembra “respirar lieve” nella casta serenità “della lavanda”. La sensualità della percezione si fa strumento di quella animazione umanizzata della natura che va sotto il nome di panpsichismo. E allora “le labbra lievi delle colline” diventano fanciullesche e “belle di cielo”, il paese ha “ventre malato” e “spalle stanche” come una “anima assopita / nella cenere greve del tempo” (Terra malata). Una diffusa sensibilità panpsichica si nota soprattutto nella poesia delle mondine, che potrei definire il “canto corale” delle donne dalle “braccia nere” (Canto popolare),
“scivola la canzone […]
lenta e limacciosa
come le molli onde della risaia”,
in cui l’immagine della madre tra l’altro coagula la nostalgia e al contempo il senso della penosità del duro lavoro:
“in mezzo alle ranocchie
– mito lontano, quadro sospeso
coi barbagli nell’acqua piatta –”
“scivola la canzone
a struggerti il respiro nella gola”.
Dicevo che la vita è per tutti un viaggio nel sogno del ricordo. Il poeta non è colui che ricorda: è colui che al ricordo affida la salvezza del tempo. Per tutti, il ricordo è un salvare il tempo: ma il poeta è colui che lo salva per tutti. L’“onda” che va, l’onda della giovinezza perduta è per la Tacconi una rosa “impietosa” che con l’effimera brevità ha i segni della spietata “crudeltà”. E qui si vede come, per ognuno, la giovinezza – in genere, il “tempo” che è passato – ha i suoi occhi, il suo colore, il suo tono. Per la Tacconi ha il color rosso (“rosea fiamma”) che d’un colpo – non sembra fulmineo, quando qualcosa è passato? – s’imbruna. Svanisce (L’onda del tempo).
Ma la vita non finisce. Esige che il giardino si apra – come dice la citata poesia – alle piogge dell’esistere. Il problema è di non farsi ingoiare dal buio della notte,
“Non ascoltare i proverbi neri”,
insidiosi, divoranti, travolgenti, che possono precipitare il desolato spirito
“nei fondi crepacci del delirio”,
soprattutto quando tra il passato e il presente si staglia l’ombra nera di un’assenza devastante (Le vuote dimore).
Nel percorso all’indietro, in questa proustiana ricerca del tempo perduto, non fa meraviglia trovare la nonna che stendeva la trapunta dorata: non è solo un fatto del mondo passato. È una spinta emozionale verso l’universo incantato della incosciente vitalità dell’infanzia, quando, nel cielo incredibile come il sogno non sognato ma vero,
“il mondo si curvava lucente” (Infanzia).
Forse, proprio in questa capacità di scoprire il presente rielaborando il passato, di salvare la miseria dell’oggi in un orizzonte che comprende la totalità dell’esistere – come il cielo immenso, che ha buchi neri e stelle splendenti, meteori che precipitano e pianeti che tengono il passo –, la vita non si spegne, e torna a fiorire l’aprile:
“nei tuoi vecchi colori
c’è il miracolo
antico
dell’erba nuova” (Un altro aprile).
Anzi la voluttuosità si rinforza tra l’accidia del lieve sole e la quieta mestizia dei cortili – come inizia la citata poesia –, come avviene ai ciliegi che ogni anno ripetono il miracolo della tenerezza e della ingordigia d’esistere che rinasce dopo l’arido inverno.
A questo punto bisogna menzionare le nostalgie concrete, e non solo esistenziali, di una autrice che non nasconde le sue terrestrità. Ma anche in questi casi, come in La piazza nel sole, s’impone alla fantasia quella che abbiamo chiamato percezione sensitiva. E allora le “colline sogguardanti dai tetti” hanno un “canto”, che è un canto di “ambigua bellezza”; il sole di mezzo settembre è “sdraiato” nella piazza di Casteggio “tra quieti sbadigli di nere osterie”; oppure è la nostalgia del paese natio, quando si è vestiti del “vestito da sposa”: e il ricordo d’aver lasciato il proprio paese è come quello di chi è andato in esilio (Argilla rosa).
Non si può presentare la raccolta di Giovanna Tacconi senza riflettere sulla figura della madre. È una presenza che catalizza gran parte del ricordo. È una presenza “calda” (“il caldo passo!”, Sera d’ottobre) e premurosa (“come la notte / attendeva”, Ritorno), che accompagna forse più di ogni altra la trama dei ricordi del passato, il mondo che riaffiora alla memoria come i “tempi del cuore” (Ancora). Non è qui il caso di individuare questi momenti di varia quotidianità, ma è opportuno notarne l’atteggiamento di fondo. C’è una lucida consapevolezza che non ha nulla di narcisisticamente nostalgico, nonostante le più vive suggestioni di una vita fortemente attaccata alle esperienze della prima gioventù (ad esempio in La favola antica del tempo). Direi invece che c’è l’accettazione del mutare del tempo, secondo il tipico realismo – se mi è concesso di dirlo – femminile. E al contempo, in questa attitudine di sana concretezza l’immagine della madre mi pare che diventi il prototipo delle aspirazioni: le poesie non si calano soltanto nell’immaginifico del passato; pulsano anche di avvenire. E in questo “non-ancora”, che si sogna, appare chiaro un altro elemento della sua poetica: la poetica delle “piccole cose” di gozzaniana memoria. “Voglio […] / fare le cose che fece mia nonna / che farà mia madre”, ecc. (Quando sarò vecchia): con un tocco di crepuscolarismo, ma non di maniera, perché realisticamente – ella dice – sarò vecchia, e allora
“Voglio accettare la malinconia della mia pelle
e affacciarmi da una finestra che avrà le mie labbra”.
In questo componimento (Quando sarò vecchia), che ha l’aria di un testamento di vita, si congiunge insieme il passato e il futuro, la ripresentazione di ciò che è stato e il sogno di ciò che sarà, perché solo qui – ella dice -, dove ho visto i miei giorni originali,
“avrà senso lo sfacelo dei miei capelli
perché qui ho giocato con la lucertola sulle tombe
e guardato per scherzo nell’ossario sotto la botola”.
Questa raccolta di Giovanna Tacconi è giusto che si chiuda con una dichiarazione di identità: chi sono io? Io sono questa, è l’ultima poesia: una donna dal “cuore di rovere” a cui è piaciuto ubriacarsi di mosto “quando aveva lunghe trecce dietro il collo”. Una donna che trema nell’anima se guarda fuori casa.
Perché? Per rispondere occorrerebbe scoprire un altro rapporto: quello col padre “che ho sempre cercato”. E forse nello scavo con quest’altra figura si potrà completare il quadro poetico della scrittrice (pagine 7-18). [Francesco di Ciaccia]
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.