Pedroni, Fabio, La notte dei sentimenti
Il silenzio e la parola, Introduzione a Fabio Pedroni, La notte dei sentimenti, Milano, Prometheus (Polimnia 21), 2000.
Progetto grafico di Edelgard Wortmann
Testo della Introduzione
È bello leggere ancora poesie chiare come le “fresche acque” di petrarchesca memoria, e classiche come quelle dei cultori della nostra antichità; e fa bene leggere ancora accenti originari, che poi son quelli che stanno alle sorgenti della vita umana; sentire ancor ripetere, con un «ringraziamento speciale / e infinita gratitudine»: a colei
«che mi ha dato
le ali
per volare».
Non ci troviamo però di fronte al lirismo poetico alla maniera dello stilnovo: il sentimento è cifra metafisica, è la chiave di volta dell’esistenza senza illusioni.
È su questo concetto che mi piace iniziare il mio intervento, perché la composizione di Fabio Pedroni manifesta tutta la dimensione dell’animo giovanile: la quale è di entusiasmo, ma di un entusiasmo che ha la funzione di rompere il guscio della solitudine.
La vita non cresce nel frastuono: il chiasso giovanile è solo esteriore. A volte maschera il disagio interiore. La vita si sviluppa nel vuoto: il vuoto del passato, che è breve, e di inconsapevole spessore; il vuoto del futuro, che è un: “non so ancora”; il vuoto del presente, perché l’attimo sfugge. Il vuoto è il silenzio. È la solitudine. L’opera di Pedroni cadenza con ritmo calzante questa condizione esistenziale, ora decifrata nel concreto fenomenico, ora trasmutata in forti e pregnanti metafore:
«Senza più lacrime è tramontato in me l’ultimo sole» (Dall’ombra in questa pineta).
Dal significato tuttavia polivalente, il “silenzio” è figura che ricorre con insistenza a raffigurare o il raccoglimento profondo, nel quale matura la fede e la speranza infinite; o l’isolamento fallimentare. Per un verso c’è il silenzio che è come un “tesoro”, quando un uomo, una terra, una stella son muti, ma sono meravigliosi nel cuore (Nata da un Dio più Grande). Per altro verso, c’è il silenzio che è una lontananza dagli uomini, dalla vita, dal futuro: e allora nasce quel senso di frustrazione che spesso attanaglia gli spiriti più sensibili, consapevoli della ingiustizia del mondo e del fato: «ho fallito […] ho capito di essere solo» (Nata da un Dio più Grande). Nel silenzio della notte. Nel silenzio della vita!
Da questa solitudine si esce con il sentimento, appunto: il sentimento, come apertura verso l’ignoto, verso l’universo, verso l’eternità. E allora si scopre che la vita assale ed invade anche la materia così esasperatamente immobile.
Sentimento, e poesia. L’uno e l’altra sono fratello e sorella. Non occorre che lo esponga: l’ho già fatto altre volte nelle mie introduzioni ai volumi della Prometheus. Qui sottolineo invece come la poesia sia per l’Autore la compagna e lo strumento del sentimento: «Non ho che te». È la parola scritta, è la «penna». La poesia è dentro la solitudine, ed è lo strumento musicale, e la rivelazione, del sentimento:
«Non ho che te, pensiero che spazi,
e spandi, dal cuore, al cuore, del mio finito universo» (Non ho che te).
In forza della grazia dell’ispirazione poetica, per esprimermi così secondo la concezione dantesca, la pesantezza dell’essere si libra ed ascende verso lidi leggeri: della vita. «Non ho compagni» – ripetuto tre volte! –
«ma in cuore […] attenderò con coraggio
la rinnovata primavera» (Non ho compagni).
In effetti, nel componimento che riassume il «male» – così dice – che è «tutto», una immagine di resurrezione sprigiona dalla morte, con l’irruenza della forza della natura: «La vita / che vince la terra» (Epigrafe). E il germoglio: che sboccia nel silenzio senza fiato, «Nel silenzio del mio giardino»! (Sognando primavera).
Il “silenzio” diventa così il crogiolo in cui lo spirito, morto – cioè affranto –, prepara, per un’alchimia che avviene anche in virtù del poetare, la trasmutazione del «nulla» nella speranza sospirata: e sul «frammento di quel nulla»
«rifiorirà per me l’eterno» (Non ho che te).
Molte poesie di Fabio Pedroni, sul piano emotivo, mi hanno fatto riandare col pensiero alla solitudine leopardiana. Il corpo è distante dal mondo, l’occhio corre lungo le strade, e da lontano guarda…, guarda la gente affrettarsi dietro fugaci felicità, verso beatitudini effimere, alla ricerca dello stordimento insaziato: «la felicità non è che un attimo» (Felicità). Ma Pedroni supera il pessimismo leopardiano: un attimo può racchiudere l’intensità di tutta una lunga esistenza! Se la vita è dolorosa – e non c’è dolore più grande di quello della coscienza della “finitezza” del vivere! –; se è un vano nulla – «non è che un sogno, la vita» (Non ho che te) –, è proprio tale consapevolezza che riesce, in questo caso, a fare assaporare la vita nella sua insondabile, misteriosa ricchezza:
«Per un’ora sola
per un minuto
vissuto intensamente
vale la pena di
esistere
Amare e soffrire» (Attimi).
L’annuncio più bello credo che sia quello della funzione “miracolosa” dell’amore: pure un «attimo – fugace –» può «colmare d’immenso / il vuoto dei silenzi», e
«Unire nel miracolo
dell’amore
il cielo e la terra
il passato e il presente
fra lenzuola di luce
[…] nella penombra.
Amare è donare
È creare,
soffrire e difendere la vita (Amarsi).
In ultimo, ma non per importanza, è da segnalare la forma poetica della raccolta. Il periodare è disteso, il discorso si amplia in larghi spazi quasi narrativi: una novità. Il Novecento ci aveva abituati ai versi contratti, essenziali, abbreviati. La struttura formale dell’opera di Pedroni si avvicina alla poesia-racconto, però è lontana dal ritmo cadenzato quale quello di Cesare Pavese. Ne deriva una poesia da “lettura”: non sono testi da “sbirciare” con un occhio solo!
E si tratta della lettura di un testo profondo.
«Ognuno di noi arde quanta più speranza osi tacere,
come una fiamma che fende l’oscuro, ma protesa
si consuma, gemendo nelle mani di una coltre
più fitta; nelle strade siamo fiamme, che immemori
il silenzio cattura, divide, sprigiona; ma i corpi
rigidi, autunnali, come gelide lingue di carne
e flutti, e spuma, la burrasca insacca e spegne
perdendo nelle onde ruvide il tramonto
di quei rivoli di pioggia, e queste lacrime, e l’ultimo sole…
… un brivido… nel profondo, una fiamma,
celata, continua ad ardere, ma invano,
richiami impercettibili, e urla, e canti, di incantata
immensità» (Il pianto scarlatto).
Allo stesso tempo sono coniugate nella poesia di Pedroni la scrittura narrativa e la simbolicità delle immagini, così che il discorso si snoda in ampiezza, ma anche si immerge in profondità per l’uso metaforico delle stesse immagini. Per tal motivo, dicevo all’inizio, quest’opera va “letta”: con attenzione. Va “studiata”: per scoprire, ad esempio, il valore di quell’“immemore» attribuito alle “fiamme” che noi siamo; della “ruvidezza» che qualifica le “onde”; per capire il “gemito” «nelle mani di una coltre più fitta».
Ma l’opera di Pedroni ha anche cadenze estetizzanti. E allora risuona nella pagina l’armonia dannunziana, senza tuttavia che l’Autore voglia imitare nessuno:
«Ascolta. Le tue onde
ardono alla luce
ove dall’ombra dei lecci
cala il silenzio
ed il nulla ci accoglie
il vuoto ci unisce
nella perfetta armonia
tra cielo e terra.
Brioni…» (Brijuni).
Una specifica originalità dell’Autore è poi quella di inserire nel discorso alcune parole latine. Mi ricorda D’Annunzio, benché il Pedroni non mostri di esserne debitore. Forse perché la scrittura di D’Annunzio affascina, trovo interessante questo uso. Il ricorso alla “contaminatio” è del resto sapiente: avviene quando l’Autore intende sottolineare una idea, imprimere maggior valore ad un sentimento. I termini latini, calati con estrema naturalezza nel testo, elevando il registro linguistico ottengono l’effetto di catturare l’attenzione del lettore e di dare incisività al discorso (pagine 5-11). [Francesco di Ciaccia]
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