Minotti Cerini, Wilma, Alla ricerca di Shanti

La pace e l’armonia universale, Introduzione a Wilma Minotti Cerini, Alla ricerca di Shanti, Milano, Prometheus, 1993.

 

 Minotti Cerini, Alla ricerca di Shanti. Copertina

Testo della Introduzione

La tensione verso il raggiungimento di un traguardo – sempre a «pochi metri» da dove ci trova – costituisce l’ansia primordiale di questa raccolta: in cui la lotta tra la ricerca del fine agognato e le remore dell’inconscio si combattono nell’animo come in una battaglia senza apparenza di speranza: anche i ricordi «si avvinghiano come ceppi e ti trattengono» (Il sentiero della montagna).

Il superamento delle contraddizioni è un penoso arrancare verso un sentiero di tranquillità e di pace: perché è infatti nel rasserenamento delle pulsioni che è possibile contemplare le passioni stesse e, contemplate, sentirle come compagne di un viaggio duro, quasi infinito, ma tuttavia esaltante. Questa pacificazione – temporanea e relativa, come ogni bonaccia in mare aperto – è un’offerta che giunge dalle profondità dell’essere: non si sa come, non si sa perché. Si sa però che sei soltanto Tu.

L’autrice gli dà un nome: è il Signore. Con lui l’animo si placa a considerazioni che vanno verso la purezza originaria. È l’esser buoni? Non lo è (cfr. Cattivo/a). È una compartecipazione totale all’alterità amata, un dolce naufragare nell’amore spirituale, sì che

«quando Ti amo non trovo altro

che il mio amore»,

in cui scompare il mondo dell’avvicendamento e della trepidazione, al punto che

«ho finito

di desiderare e penare

perché il Tuo amore m’invade» (Nôtre Dame).

La meta è chiara: ridiventare «persona» (cfr. Apatia-Agosto 1992). Impossessarsi di se stessi fino nel più intimo dell’anima, per arrivare alla piena consapevolezza senza più ombre: leggeri come un’ala di gabbiano – che «non pesa», ma che anzi solleva i pesi. Su questa linea esistenziale tutto il resto è percepito come inutile: anche il corpo non appartiene all’essenziale (cfr. L’anima di Gionata). Perciò l’autrice può affermare che «tutto ciò di cui ho bisogno» è «il Tuo amore» (Nôtre Dame).

L’immagine del fine agognato si configura in modo preciso nella pace conseguita nella unione con l’anima universale: il maha Purusha. È lì, nella luce della Bhakti – la pace –, che perde significato ogni oro che abbaglia ma non soddisfa, ogni frutto che piace ma non sazia: ed è lì che l’anima trova dolcezza, in un cammino sempre proteso e sempre fermo al contempo, come quello di un viandante interiore che non esce mai da se stesso ma continuamente esce da se stesso superandosi verso una comprensione più profonda, e pacificata, dell’io. Il rapporto con il proprio fondo – per dirla con Jung – assume i connotati di una generazione come da padre a figlio: lo «spirito» che dà beatitudine all’io è «Padre» di una creatura novella (Al mio Creatore) e nasce al «calore» di un amore più caldo del fuoco e più intimo della propria stessa coscienza; c’è una misteriosa congiunzione di consanguineità – omogeneità – e di alterità – subordinazione –, in una «dilatazione» dell’interiore che al contempo «si annulla per diventare tutt’uno» con l’universo e che si autoricostituisce nella propria identità «portando con sé / tutta la grazia dell’incantamento» (Al mio Creatore): così quando

«il mio granello di polvere vorrà

gettarsi nell’oceano della Tua pace,

che io arrivi come figlia

per riposare ai Tuoi piedi» (Come un calore).

Non c’è tuttavia da illudersi che il processo interiore si svolga in una quiete senza tempo: la quiete è il fine, ma la strada è irta di solitudini e amarezze: la vita nel mondo è un navigare per mari in tempesta, approdare da rivoli a rivoli, pur sempre

«anelando al ruscello

delle limpide acque» (Se venendo).

L’aspettativa trascendente e globale della rinascita ad una vita universale si articola tuttavia in mille rivoli di quotidianità di sentimenti e di attese. Di agonie e di risvegli. Stritolato dalla indifferenza, il cuore non riesce a volte a darsi una ragione di esistenza:

«Vivo […]

come un violino

senza corde

cercando

impossibili armonie» (Agonia).

Il sottofondo emotivo si conforma però alla medesima ansia di totalità e di immutevolezza: come quando il bambino vive il tempo come fuori dal tempo e sembra di possedere la sua esperienza in una «sicura» immutabilità (Dove il sole risorge). La coscienza della contraddizione dell’essere – per cui il positivo si accompagna irreversibilmente con il negativo – si impone comunque, ed è a questo punto che scatta, consapevole e matura, la dinamica della speranza di riconquistare l’armonia universale (Agonia), come in un’attesa del nuovo sole, nel ciclo delle variazioni:

«Ma il sole vive

con la notte accanto / […]

Ma attendo

tremante

che albeggi

guardando sempre

là dove il sole

risorge» (Dove il sole risorge).

È da segnalare il ricordo di Davide Maria Turoldo. poeta contemporaneo, tratteggiato nei suoi lineamenti più veri e immortali, dai cui «occhi chiari» la Minotti Cerini ha raccolto – per poi custodirli gelosamente – «fasci /di preghiere e poesie»:

«[dal]le mani nodose

[…]

seminò nel campo

con mano bianca e delicata

parole di speranza» (Come un albero possente).

L’autrice vede convergenti ogni grido di speranza: quella di un poeta dell’occidente cristiano e quella dell’esperienza mistica orientale. Al fondo della sostanza di questo arrabbiato esistere della storia alla fin fine sono due, e solo due, le opposizioni radicali: da una parte la tracotanza dell’uccidersi a vicenda per miraggi storici, la lotta per l’arricchimento ed il potere che seminano morte, ovunque ci sia un figlio d’uomo, e che s’accaniscono contro l’inerme (cfr. Invocazione); dall’altra c’è la promessa di una vita liberata: parteciparvi vuole dire disarcionare il fardello di Caino, muoversi verso sponde in cui sovrana è l’unità tra tutti i figli d’uomo. A che serve occupare un suolo al sole o assicurarsi il godimento di un macchinario per estrarre i tesori economici della terra, se poi ciò che viene a perdersi è la serenità dell’animo, la pace della mente? Dove, dunque, noi trarrem gli auspici? Dal gorgo dell’accanimento, o dalla sorgente dell’armonia dell’universo?

Inizialmente, e solo apparentemente, intimistica, la progettualità della scrittrice si staglia, catapultata per forza obbligatoria, sull’orizzonte dei destini umani: o la terra riscopre la logica della realizzazione interiore di sé e la assume a criterio discriminante, come fine unico e non già succedaneo, di ogni uomo e di tutti gli uomini, oppure continuerà a girare intorno ad un perno di autodisgregazione, in cui le illusioni appaiono massive verità (cfr. L’attesa sul mio Gange). Ma che cosa è che fa sperare in una gioia più grande, in un mondo più dolce e bello? Può essere mai che la speranza sia da porre nella dialettica degli interessi che scavano tombe per gli altri e che le preparano per chi le scava a danno altrui? «Sciocchi esseri mortali», siamo! È questa, forse, 1’«intelligenza» umana? È questo il dono dei Celesti?

Liberarsi innanzitutto del proprio «bagaglio»: il nemico dell’uomo è dentro di lui (pagine 7-13). [Francesco di Ciaccia]

 

 

 

 

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