Giannotta, Katia, Apulia
Il volto dell’uomo, Introduzione a Katia Giannotta, Apulia, Ragusa, Libroitaliano, 1999.
Testo della Introduzione
La poesia, se nasce da un bisogno profondo, è sguardo sul mondo interiore : anzi, è la parola del mondo interiore.
Katia Giannotta non lo nasconde: la sua nota biografica sembra indicare esattamente i termini del suo vissuto, quindi della sua ispirazione. Benché agli inizi, la sua vita appare segnata dalle contraddizioni del vivere: da cui forse scaturisce in lei la voglia di esprimere la propria anima, di esplorare e di dire il proprio “io”. Tuttavia il suo dire non ha nulla di conflittuale: quasi ella abbia trovato all’interno delle occasioni dell’essere il luogo della sua pace superiore, della femminile dolcezza. Questi rilievi servono solo a inquadrare la produzione dell’autrice: i contenuti e il suo stile, il suo pathos. Si trovano in essa i volti e i luoghi rivisitati – la poesia è sempre rivisitazione emotiva – durante l’esistenza: e la datazione apposta alle composizioni fa da spia a come l’opera sia fenomenicamente puntualizzata. Ma l’opera travalica il mero connotato fenomenico, la datità del mondo: si proietta nella sfera della pura esistenzialità.
La poesia, se è poesia vera, è parola che svela alla coscienza di tutti una dimensione universale della esistenza.
Non bastano queste due righe per mostrare il valore noumenico delle poesie di Katia Giannotta, il loro significato universale. Il rapporto con le concrete esperienze non cade nel cronachismo: diventa il modo di sentire il mondo e la vita. Ed il suo è un sentire partecipabile. Basti accennare a quel Momo, bambino cieco, “sospeso in un etere / che di luce risplende. […] E rimani puro”: in cui il dramma della cecità – che aliena da “questo nostro mondo” – è visto con la coscienza del bimbo. Oppure, alla poesia sull’estate, l’estate che riesce “a inumare rancori / a involare / ardite speranze!”: e anche il lettore partecipa a questa “stagione di esotici miraggi”! O alla crescita di una bambina: un vissuto, tra la realtà e l’immaginario, in cui qualunque fanciulla si ritrova, tra “sorrisi beati / per le ali di un aquilone / e singhiozzi spezzati”, e “sogni di principi” “su spiagge deserte”…
La scrittura di Katia, nonostante manifesti tutta la tensione sull’universale, è sempre chiara, pulita: non deve sforzarsi di creare artificialmente atmosfere liricizzate od ermetiche. La forza emotiva è interna alla sua stessa parola, che resta semplice, e insieme potente, anche quando fa sussultare per percussioni che sembra scendano nelle profondità esistenziali, come quei “rancori placidi” – ma è solo un esempio – “sommersi / in vissuti sterili” (pagine 9-10). [Francesco di Ciaccia]
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