Cangi, Giuseppe, Personalismi
Introduzione a Giuseppe Cangi, Personalismi, Prometheus (Polimnia 2), Milano 1992.
[con etichetta della Biblioteca Nazionale Braidense
per omaggio di duplice copia]
Testo della Introduzione
La raccolta di poesie di Giuseppe Cangi si ispira fondamentalmente, come lo stesso titolo indica, ad un biografismo personale che rievoca momenti di vita particolari e intimi sentimenti familiari; ma ad essi si aggiunge una traslazione di più ampio respiro, fino a simbologie universali. Noteremo brevemente questi due livelli dell’ideazione artistica; ma prima non possiamo tralasciare una generale considerazione sulla parola poetica.
È stato osservato che la differenza tra un cronista ed un poeta, anche quando l’arte è realistica, consiste nello “sguardo” dei due narratori. Quello del cronista è utilitaristico: vede le cose secondo quanto esse interessano gli altri, cioè per “far sapere” qualcosa ad un pubblico assente all’avvenimento. Di conseguenza esso è uno sguardo che intende solo il particolaristico. Quello del poeta è invece gratuito: non si preoccupa di far sapere. È intento solo a “dire”. Di conseguenza è universale: innanzitutto e anteriormente al “detto”, il suo sguardo – inconscio – coglie il “tutto”. Inconsapevolmente, il poeta dice sempre, pur nelle circostanziate immagini dell’esistente esterno ed interno, connessioni universali tra gli esseri. In un acuto e recentissimo saggio su Leopardi, Maria Teresa Gentile, dell’Università degli studi di Roma, ha mostrato come l’atto del filare della vecchierella del Sabato del villaggio comporta una valenza che va al di là dell’azione realmente e comunemente compiuta da una vecchia donna di paese di quell’epoca e si aggancia – inconsapevolmente per l’autore stesso – all’intuizione del fluire della vita, di cui la femminilità è la matrice originaria, in una ciclicità che trapassa incessantemente dalla “donzelletta” alla vecchierella e da questa a quella.
Certo: per fondare criticamente i significati “universali” di un discorso poetico occorre uno studio filologico e anche comparativo tra la poesia e il resto della produzione di un autore. Tuttavia, ciò che voglio qui segnalare è la dimensione in cui si muove ogni poeta: quella dell’unitarietà di tutto il reale, tale per cui e ciclo e terra e uomo, e i fatti interiori e i fatti esteriori si implicano e si intersecano nell’armonia della totalità, ed ogni cosa esiste come “segno”.
Mi piace dunque innanzitutto tentare una lettura, sia pur veloce e spontanea, delle poesie del Cangi sotto questa luce. Genova, sempre ventosa, si trova assediata da un “mar che ti distrugge e che tu ami” (A Genova). Questa lirica, con cui si apre la raccolta, mi fa immaginare la legge della vita – i genovesi sono poi definiti “forti e sani”. Il mare è la vita combattuta, origine appunto della vita stessa ma insieme minaccia del male: è ciò che si ama e che si teme, proprio perché il positivo non può essere senza il negativo. Il mare insegna che non si può evitare il male, se si vuole imparare il bene; non si può escludere l’ostacolo, se si vuole entrare nella vita, cioè trasformarsi nell’eterno ciclo di rinascita.
Questa premessa mi pare poi molto appropriata per intendere più profondamente, e cioè al di là della “poesia della morte” della moglie – che comprende gran parte della raccolta di Personalismi –, tutto il percorso di dolore e il dramma del ricordo appassionato.
Nella lirica commemorativa e rievocativa de La vittoria del K/2, in cui si nota di primo acchito soprattutto il fascino esercitato sugli animi giovanili dall’intrapresa, a quel tempo arditissima, degli alpinisti italiani, l’“alta conquista” aleggia tuttavia come un bisogno più o meno inconsapevole di forzare i limiti del quotidiano. Intensamente vissuta in modo emotivo, quell’impresa acquista un po’ il sapore del dantesco Ulisse, sospinto verso l’ignoto e oltre la morte – come fa intendere il ricordo di un alpinista già morto nel tentativo di vincere la vetta inviolata –: dalla giovane vita “rubata” sgorga “solo una novella e forte spinta” ad andare avanti.
Dicevo che il nucleo essenziale della raccolta del Cangi è nel ricordo della moglie morta. E qui non può non venire in mente l’annotazione dantesca: “Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria” (Inferno, V, 121-123). L’autore ritorna alla gioia familiare della nascita delle sue due bimbe, con un afflato paterno che poi rende ancor più desolanti le scene del vario distacco; ma soprattutto ritorna, quando ormai il tempo felice ha lasciato il posto al tempo della desolazione, ai primi timidi baci, ai primi dolci approcci con la sua donna. Finché, alla fine, la solitudine: “Nessuno / accanto a me, nessuno! / E dai miei occhi stanchi / sgorga represso il pianto” (Solitudine).
È interessante notare il percorso di questo vissuto di dolore. In un primo momento, appena la persona cara ci ha lasciati, si ha quasi un’illusione, che sembra voler forzare gli avvenimenti e la realtà, di poter negare il fatto: un’illusione titanica di riavere la persona amata: “Se Dio in ciclo esiste / lo pregherò soltanto / sol per riaverti accanto” (Ossessione): è in effetti un’ossessione che quasi disperatamente cerca di ricreare ciò che è perduto: “e guarderò smarrito / nell’animo ferito, / alla ricerca invano di chi ho amato ed amo”. L’illusione, poi, al contempo si rafforza e si smorza, attraverso la mediazione delle figlie, frutto dell’uomo “abbandonato” e della donna “morta”: si rafforza, in quanto gli occhi e le sembianze delle figliole “riflettono” gli occhi e le sembianze della madre, ed allora l’immaginazione quasi ripropone l’impossibile ritorno in vita della sposa: “sussurrami che presto tornerai” (Realtà amara); e si smorza, in quanto la presenza reale delle figlie impongono di affrontare concretamente la vita così com’è: “ritorno alla realtà, perché la Ina / mi scuote con la bianca sua manina”.
Il dolore per la perdita dell’unica e carissima donna amata – “ch’eri tutto il mio mondo!” (Vuoto) – si snoda in versi che direi davvero strazianti: c’è tutta la consapevolezza dell’ineluttabile, e dentro l’ineluttabile la percezione che niente e nessuno potrà sostituire ciò che è scomparso: “Quando di sera torno a casa stanco / […] / Vorrei venir di corsa al camposanto” (Desiderio); ma al contempo all’illusione subentra una più consapevole ricerca di unione: sarà nel solo affetto, sarà solo interiore, ma questa volta è vera: “Mai più ti scorderò, mia Dina cara, / starò col mio pensiero a te vicino, / la vita sembrerà un po’ meno amara: / un nuovo giuramento ti fa Pino” (Ricordi… Ricordi). Da questa intensa e viva comunione d’amorosi sensi, in una stretta comunicazione che ricostruisce e ripristina il mondo vissuto insieme, nasce quasi una nuova vita: una vita di più intimo amore, divenuto oramai tutto spirituale, al di là dei ricordi stessi dei bei tempi passati: “Dammi coraggio, Dina, / fammi coraggio, amore. / È tutto come prima, / sei sempre nel mio cuore” (La fotografìa).
Conclude infine il ciclo del pianto e del male – “ma crudele è stato il fato” (Le virtù) – la fiducia di ricongiungersi su un altro piano ancora, questa volta “in Paradiso”, con l’unica donna amata (cfr. Vuoto). Ma già fin d’ora l’uomo abbandonato si unisce, quasi misticamente, con lei: in una ripresentazione immaginifica, ma al contempo esistenziale, del suo primo, e indistruttibile, incontro d’amore di sposo e di sposa: “Ma ormai aspetto soltanto / quel giorno, però, non so quando, / allorché vestita di bianco / sarai nuovamente al mio fianco” (Soliloquio). E ciò che ne scaturisce è un reale – e non più soltanto immaginario – rapporto affettivo di vita in comune. Lo dimostra il fatto che l’uomo abbandonato non più soltanto pensa alla sua amata, ma la “sente” vicino, nelle gite al mare (Gita a Portovenere), in cui “è come se mi dessi la mano, / un bisbiglio: ti amo”; ne sente “il profumo”, ne scorge riflessa la foggia del “viso bagnato”, ne rivede il velo e addirittura “la vera nel dito” (Oh! quante volte…).
Ma il ciclo del bene e del male non sarebbe completo, se non pervenisse all’ultima sponda della vita: che è quella di riunire tutto in una armonia in cui il negativo si risolve nel positivo. Ed è su queste note che mi sembra termini la raccolta del Cangi: quando egli, ormai franto e maturato dal dolore, partecipa al dolore degli altri. L’ultima poesia, A Rosanna Bensi, costituisce il traguardo della via crucis: la sofferenza e la disgrazia diventano un esempio di speranza per tutti: “la sua luce, ora, comunque / splenderà sempre dovunque” (pagine 5-10). [Francesco di Ciaccia]
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