Barbieri, Sergio, Schegge di passato
Il ricordo e la rifondazione dell’uomo, Introduzione a Sergio Barbieri, Schegge di passato, Milano, Prometheus (Eos 20), 1993.
Testo della Introduzione
Il ritorno al passato, nella «notte / agonizzante» calpestando «sterpi che piangevano / rugiada», avviene senza che sia trovato «alcun sentiero / conosciuto» (Schegge di passato).
Il ricordo è nella lontananza: avvicina le cose superate. Non è questione di ripensare a qualche brano di esistenza lontana e di dimenticarne qualche particolare: la lontananza è data dal superamento coscienziale di ciò che è in quanto è stato. L’uomo non vi si riconosce: il suo atteggiamento interno è mutato. Il mondo soggettivo è creato dalla propria percezione: solo l’io lo salva, così come l’io lo procrea e lo distrugge. Chiamiamolo «colore»: il senso coscienziale che l’uomo dà alle cose.
Il colore da significato a una mano – ne I colori del ricordo – che di volta in volta è indaco, grigia, nera e poi scarlatta. L’indaco esprime il fanciullesco – quell’età vitale e primordiale che si effonde uniformemente fino agli invisibili orizzonti –, la cui freschezza marina pare che si rifletta
«sulla piccola mano che raccoglieva
minuscoli sassi colorati
al limitare del mare […]».
E sempre di «mare» è il ricordo di quell’età che somiglia ad una libellula libera e sana: di quando il ragazzino, in «una giornata di mare»,
«aveva rubato da un muro
la gioia
che vi rifioriva»:
quella di una piccola rosa, che oggi l’adulto stringe sul
«cuore ferito» (Come una libellula).
Il grigio indica il vissuto del giovane che si diverte a gettare, per gioco e con «arte»,
«biglie colorate
in una strada di sassi»:
scanzonato e divertito, ma consapevole ormai che il tempo sta oscurando la spensieratezza inconsapevole.
L’adulto si è misurato con l’esperienza della fine, ha già incontrato
«un corteo di mestizia
e di dolore in un sentiero
che attraversa un campo
con cippi graffiti di marmo
nero»:
la morte ha fissato il suo orizzonte futuro: dall’indecifrabile orizzonte oceanico, che col cielo e le stelle disegna un unico affresco, alla circonferenza la cui cifra è la fine della vita.
Ma al di là e al di qua della morte – della coscienza di essere e di non essere più –, il colore che tinge l’anima è lo scarlatto violento: la mano che punisce l’altra mano
«della perenne
rabbia e solitudine».
Su tutto il passato si stende un velo dal «colore del rammarico» – come si intitola una poesia. E qui fiorisce un altro concetto, all’apparenza incomprensibile:
«Le cose più belle sono
i ricordi
di fatti mai accaduti
di sogni mai sognati».
È il ricordo di ciò che si sarebbe voluto; che si è cercato ma invano; che, desiderato ma non conseguito, appartiene all’immaginario libidico; e allora non resta che il senso
«di essere un escluso»
dal reale.
È come un sogno inseguito da una nuvola alta levata: il sogno è la «favola di ieri», e quando esso si va ad accostare troppo alla nuvola, la nuvola «scivola» verso «il turchese della pianura», si riflette «in uno specchio d’acqua» tersissimo e genera due dimensioni del vissuto passato: l’una aderente al reale, ma mobile come l’agitarsi dell’acqua; l’altra inchiodata alla fantasia – garantita perché si autocrea – che mostra «volti sconosciuti e sfuggenti» (Una nuvola insegue un sogno).
Una osservazione è subito d’obbligo: la dimensione della frustrazione, incuneata nella vita reale, è certo un problema che neppure la «memoria» risolve e discioglie, nonostante essa abbia il potere di cambiare i connotati delle cose più massive e oggettive; tuttavia ciò che interessa al poeta non sono i dettagli della realtà come fotografie in un album. Per lui, l’importante è proprio questo ricomporre e ricreare il passato – «in tenui colori rappresi» – con un sentimento che ad esso dia senso rinnovato e riprogetti un futuro da mettere al mondo (Un sogno ad acquerello).
Il ricordo può addirittura cancellare il passato:
«E nulla – nemmeno la più piccola ruga – indicava che fosse
esistito un passato» (I segni del tempo).
Ma anche se il futuro è «senza senso e senza scopo» e l’epilogo appare alla coscienza come un «vuoto a rendere» – un fragile vetro da restituire alla sorte –, il ricordo rappresenta comunque la misura del cambiamento (Specchio delle mie brame).
Il ricordo, al contrario, può addirittura creare «l’irrealizzabile / di un ipotetico futuro». Paradosso? Non lo è per la potenza della immaginazione captata dalla mente inconscia. Il poeta è una porta aperta in cui passano le realtà più impensate che sfuggono alla ragione attaccata a quelle cose chiare e distinte che valgono solo per i giochi della società, che ha potere soltanto nell’organizzazione programmata del tempo (Come un uscio).
Per la poesia, strumento del sogno – rifondazione del passato e della vita – è la parola. La parola ricrea la realtà – lo diceva già Gabriele d’Annunzio –: quelle parole nascoste
«sul fondo di tenebrosi
labirinti mentali»
e che – partoriti dall’inconscio – sono luci
«che accendono le speranze
e spengono la solitudine
che accendono i ricordi
e spengono le angosce
che accendono la voluttà
e spengono le incognite»:
e fanno, così, riaffiorare dall’irrazionale il senso esistenziale del proprio essere. Sono la verità della consapevolezza di ciò che si è nel proprio profondo insondato.
Ma ora vediamo di toccare alcuni punti del passato riscoperto nel mutato atteggiamento presente. Non mi soffermo su alcune figure, per quanto importanti, quali il padre o la donna; traccio invece le dinamiche generali di questa «memoria». Uno dei momenti più nitidi è il tempo in cui si è in attesa del proprio futuro (Inverno 1954):
«Era come restare seduto nell’anticamera
del Limbo in attesa che il tuo nome
– scandito dai rintocchi del mare –
emergesse dal nulla […]».
È allora che
«capimmo che la recita era ormai
cominciata […]».
Ed è importante una delle demitizzazioni che l’età propone all’adulto: quella riguardante la donna:
«In fin dei conti la nostra
è sempre stata una ricerca
della donna super-ideale
della donna sublimata dalle letture
e dai films a lieto fine».
E forse, per questo, un uomo come il Leopardi inseguì, anche nel «ciclo di Aspasia» verso la fine della sua vita, la donna ideale: perché sul piano emotivo ebbe in sorte di restare un adolescente per tutta la vita. Ma perdere i miti adolescenziali, disilludersi e crescere conduce a conquiste realistiche e ad aperture mentali che abbracciano esperienze più ricche, anche se meno tremanti:
«Ma, forse, ci sarebbe bastata accanto
una madre, una sorella, un’arnica
alla quale poter raccontare
i nostri piccoli immensi sogni».
La coscienza del passato si fa poi drammatica quando evidenzia il contrasto con il tempo presente:
«Ho già perso il cuore: non sono
che un pupazzo colorato che perde
brandelli di stoffa e di sogni
ad ogni procedere forzato» (Ho visto volar via la Fenice).
La contrapposizione tra le condizioni mutate del tempo conduce ad una ansiosa ricerca di tenere i fili perduti, con un senso di depressione che rasenta il rifiuto:
«Ho gettato lontano da me – oltre i ricordi –
i quarzi […]
[…] che avevo confuso
con la pietra filosofale.
Sono rimasto con un corpo di pezza».
E ad un certo momento appare un po’, nella vita, un
«giorno
di inutile attesa»,
mentre il sole, che sorge ogni giorno, lancia sprazzi di luce su attimi che sfuggono e che ci lasciano
«sempre più poveri
a mendicare
una carezza
come cani randagi» (Una traccia d’argento).
Il bilancio è desolante (Un graffito 1981):
«Io sono quello che
andava cercando pace
e mi sono trovato tra le mani
selci appuntite»,
che sognava l’amicizia e ha trovato «un groviglio / di serpi».
È allora comprensibile che, in questa sensazione di inutilità o di scacco esistenziale, la funzione del ricordo si traduca in quella del sogno come «rifugio» nel «grembo materno». La poesia – e l’arte in generale – assume infatti questo significato psicologico. Il ricordo, come sogno nella sua obiettivazione poetica, equivale a riconquistare le spiagge del
«feto racchiuso
nel suo statico Limbo» (Il rifugio dei sogni).
La letteratura ne è quasi tutta un esempio: non solo nella evidente ricerca del «nido» per il Pascoli – nell’espressione di Bàrberi Squarotti –; né solo per un Leopardi che nel sogno d’amore realizza l’irrealizzato, ma anche per Petrarca, che conquista in un mondo uterino infrangibile, statico, eterno la sua amata sfuggente o temuta perduta; per un Ariosto, che nel fantasmatico gioca a sfuggire all’opprimente contatto col mondo reale; e addirittura per l’impegnatissimo Dante, che ritrova Beatrice nel seno infinito e immutabile del paradiso terrestre e celeste.
La poesia infatti, sganciata dalle remore reali, e obliate le barriere del mondo esteriore, permette che i bisogni si liberino e sgorghino in una dinamica di libertà incontrollata. Quasi come nel processo dell’onirico. Il Barbieri lo confessa senza veli:
«E riuscivo ad evadere da qualsiasi realtà
fastidiosa o solamente noiosa.
[…].
La mia fantasia
contro tutto ciò che mi opprimeva
e mi imprigionava serrando
angosciose manette […]» (Il rifugio dei sogni).
L’evasione – che però non è un semplice regresso alla fase fetale ma anche una riscoperta di vita più personale – sembra tanto più facile in quanto la vita sia stata tutta una fuga: vissuta in superficie, dentro una maschera che nasconde l’allontanamento da sé. La quasi-favola C’era una volta un ragazzo… lo dichiara a piena voce: quel ragazzo «che nascondeva tra le risate / […] / una tremenda solitudine interiore», «E quando cambiava la donna / […]/ lo faceva / come se dovesse scegliere / un film». Ma non è questione di vana superficialità: è in gioco un atteggiamento di radicato e radicale superamento di sé nello scontento e nello spleen in parte introverso e narcisistico e in parte propulsivo e maturante:
«Altro non c’era.
E se accadeva che ci fosse
non poteva
né doveva esistere.
Non poteva esser schiavo
di nessuno
o di alcunché.
A volte
nemmeno di se stesso».
Ma appunto, come dicevo, l’autogratificazione, condotta sul filo della esasperata insoddisfazione di sé, conduce alla maturità della consapevolezza e quindi al superamento delle posizioni primarie, verso una esigenza che potrebbe essere o relazionale, oppure di nuovo immaginaria, fino alla autodistruzione:
«Si accorse che la vita
vissuta alla Dorian Gray
era persino noiosa
e monotona»,
tanto
«che un giorno se ne andò.
Spense la luce
e distrusse il suo Creato.
Girò l’interruttore della vita
e tutto il misero mondo
sparì nelle tenebre».
L’esito è la cancellazione dell’esistenza insidiata dal tarlo della fugacità e della fallacia, ma la conclusione finale è in questi versi:
«E restò solo
nel buio.
A urlare la sua angoscia
fuori dal tempo
e dallo spazio».
Potrebbe sembrare la fine della interrelazione col mondo fuori di sé. Invece la potenza della personalità di un poeta ha questo di straordinario, inimitabile e strano: tra i miraggi solitari del deserto riesce a condursi ad un pozzo che lo collega alle verità della terra, e, quando l’età ha disilluso ogni illusione, può ricrearsi «una vita» (Disgregazione).
Anche i ricordi «storici» incidono un segno nella mente poetica. Così è ad esempio per l’incontro a Bordighera tra Mussolini e Francisco Franco, rivisitato con gli occhi da adulto ma riflettenti quelli del fanciullo di allora:
«Una data di una Storia fatta
e concepita da uomini fotografati
sempre a mezzo busto o su
un cavallo, brandendo una spada»:
così sarebbe entrato nei libri di storia. Ma per il bambino anche quell’episodio diventa la ricerca della propria libertà di esistere (Libertà va cercando).
Ed ecco arrivati al nocciolo di una questione che sta alla radice della tensione vitale del poeta e che d’altronde ha interessato non solo molti scrittori, ma anche studiosi della psiche, come Freud e soprattutto Fromm. Si può sintetizzare dicendo che la Storia è il luogo deputato e consacrato alla libido di possesso; la sfera dei sentimenti è invece il mondo in cui, nella tragicità della autocoscienza, l’uomo si costituisce come soggetto. L’idea del brano poetico Libertà va cercando è sviluppata in una lunga composizione in cui è dichiarata l’inesistenza del presente: il «presente» inteso come infanzia, libertà di sognare l’originario e la purezza, di vivere la propria natura non contaminata dal prevalere della volontà di potenza e di possesso (dell’avere in luogo dell’essere). Già il Leopardi si esprimeva in questi termini, nel canto Alla primavera o delle favole antiche: «Vissero i fiori e l’erbe, / Vissero i boschi un dì. Conscie le molli / Aure» ecc. La ragione ha creato la civiltà razionalista, e la civiltà ha sviluppato a dismisura la ragione deprimendo l’istinto.
Chi sogna più la «favola bella» del D’Annunzio di La pioggia nel pineto? Pochi, invero. Chi è capace di pensare ad altro che al nostro «benessere»? La Storia – con gli uomini che la guidano da millenni – ci ha pensato molto: e ha cambiato le lance e le spade con uno strumento atomico. Per il nostro benessere! Qui vorrei seguire il discorso non sul terribile possibile futuro della terra, quando, magari fra millenni, sarà schiacciato il «bottone rosso» dell’atomica e, dopo altri millenni, cioè dopo che l’uomo tornerà a fare la Storia partendo di nuovo da un livello primitivo, arriverà ancora ad evolversi al punto da schiacciare di nuovo quel bottone tecnologico per il «benessere» umano! Mi preme invece notare come la dinamica di fondo, che conduce l’uomo a privilegiare il possesso delle cose – il benessere mondano –, non dipende da altro che dal privilegiare l’attività razionale rispetto a quella affettiva. Lo ha detto già Nietzsche: con il prevalere dell’atteggiamento apollineo – storicamente, da Socrate per passare a Platone, ad Aristotele e a tutto l’intellettualismo occidentale -, l’importanza dell’Utile ha fatto trascurare l’inutile, l’istintuale, il sentimentale:
«Il presente non esiste più.
Come non esiste più la speranza.
Come non esiste più l’amore» (Il presente non esiste).
Il problema non sta nel progresso scientifico ma, alla base, nel progetto esistenziale di fondo – per dirla con Sartre -, che ha scelto la ragione a sola guida della organizzazione del mondo. Ma la ragione, senza che sia dato altrettanto spazio all’emotività e alla sensibilità, genera il mostro.
Oggi l’uomo è mostruoso.
La sua natura è stata già adulterata: la ragione è surcresciuta a danno dei sentimenti originari.
E perciò ha potuto uccidere i suoi simili in nome di ideali (pagine 7-18). [Francesco di Ciaccia]
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