Barbieri, Sergio, In una piazza color di seppia

Per una breve eternità, Introduzione a Sergio Barbieri, In una piazza color di seppia, Milano, Prometheus (Eos 15), 1993.

 

Barbieri, In una piazza color di seppia. Copertina

Testo della Introduzione

La presente raccolta è carica di una esistenzialità che scopre nell’immagine della morte tutta la sua passione per la vita. Protagonista delle poesie è, direi, la vita; l’amore per questa povera breve esistenza. Ma la misura di questo amore imperioso e travolgente è dato dalla “presenza” proprio della morte. La morte è appena al di là di un cancello mal custodito. Te la vedi lì accanto, lungo una corsia d’ospedale, buttata sui letti tutti i giorni rifatti perché non sembri che giunga improvvisa. Te la trovi sul tuo stesso letto di pianto, mentre la tua “anima” cerca di conciliarti con lei, insinuando le dolci parole che preparano al trapasso: il trapasso ad una vita migliore. Non sembra che ci sia alcuno scampo, dalla morte. Sembra che non ci sia alcun sentiero d’ombra in cui, furtivi, buttarsi per nasconderle il proprio volto, come pur a volte poteva accadere, per miracolo, quando una fila di prigionieri era scortata da un drappello di uomini armati nemici. La morte non concede neppure un fossato in cui scomparire. Forse, la morte potrebbe venire addirittura agognata. Forse, potrebbe venire sposandosi insieme ad un tuo gesto che la invochi, che la solleciti, che la introduca nel tuo corpo come si introduce un amico nel salotto di casa. Nessuno forse mai lo saprà: ma le cause naturali della morte possono essere state soltanto l’oggettivazione di un desiderio, la pietrificazione di un abbandono ormai irreversibile…

Per il poeta, la morte, invece, fatica.

Sull’orlo della fine, egli ha passato una notte sognata “ad occhi aperti per tutto / l’arco della luna nel cielo” (Breve eternità). La luna, lenta, percorreva il suo corso che sembrava diventato immobile: fissi, gli occhi proiettavano nel cielo la lenta agonia del proprio corpo, quand’ecco, come un pargolo che sbuca non si sa da dove – e non si sa perché –, “il bagliore di un giovane / sole che gioca con le tende di una finestra” (ibidem).

La vita è rubata alla morte.

Non è stato l’effetto dei farmaci “miracolosi”: è stata la speranza, a strappare una fugace eternità alla tirannia del tempo che corre verso il nulla. E “sorrido di gioia / alla vita” (ibidem).

Certo: ognuno ha le sue debolezze. E a volte la morte, vicina, può condurci a gesti involontari che nella loro incoscienza riesumano la semplicità delle pratiche imparate quando si era bambini. Nella allucinata attesa in una corsia d’ospedale – oh giornate passate “inutilmente”! –, in una solitudine rarefatta di una domenica vuota di festa, quando il crepitio di una cassapanca, nel buio di un irreale silenzio, immette in una “paura infantile” percorsa da un brivido di morte, inconsapevole s’alza la mano, “pronta ad un segno di croce” (L’esorcista).

Ma non è questo il gesto che trattiene il poeta sul limitar di Dite, per dirla col Foscolo: non è questa la sua àncora che, esorcizzando per un verso la morte, per altro verso tenta di affondare e di affidare la vita, che se ne va, in una vita che deve venire. Oltre il cancello indifeso ci sarà, certo, un “mondo parallelo”. O forse no? Ma se c’è un altro cancello, anche quello è di un “altro cimitero”. L’“altra dimensione”, dunque, quella “di là”, è lastricata di silenzio come questa “di qua”: forgiata in parallelo a questa “di qua”, che ogni giorno ci abbacina con la sua protesta di vita e con la sua promessa di morte (Un cancello sull’infinito). Le “orme” che portano “oltre l’invisibile” (Orme oltre l’invisibile) vanno, per dirla con Leopardi, anch’esse dunque al nulla eterno?

Vedremo.

Il Foscolo invocava la voce dei poeti: quella voce di musa eternante che contrasta con il rovinare del tempo e delle cose e che s’oppone all’oblio che involve nella sua notte anche le estreme sembianze e le reliquie della terra e del cielo; o auspicava perlomeno il pianto dei cari, che soccorre all’umano grido che ci trattenga al di qua del buio e del silenzio: così che l’estinto viva con l’amico, e l’amico con lui. Barbieri non ci crede.

La vita è una partita solitaria.

Anche il tuo cane può morire prima di te: che era l’unico essere che ti ha aspettato, finché è morto, che tu tornassi da una corsia d’ospedale dove ogni giorno passeggiava la morte, e la morte ogni notte. È con terrore che si scopre di essere soli: ma lo si scopre tuttavia! Una legge del cosmo? Può darsi. Una legge della vita? Può darsi. Una legge del caso? Può darsi. O è un caso senza legge? Fatto sta che ad un certo momento può capitare a tutti, o può capitare a qualcuno, di provare questa sensazione precisa, così come la esprime una “piccola conchiglia” di una poesia del Barbieri: “che il creato / l’aveva abbandonata / alla sua solitudine” (Scatola cinese due: “la piccola conchiglia”). Non c’è da fare troppo assegnamento sull’organigramma dello stesso universo: se all’origine della “creazione” vigeva il principio dell’impulso vitale, se all’inizio l’“innocenza” consisteva – come nella vita del singolo uomo – nell’apertura alla vita, nel tendere a nuove scoperte, nello spingersi in avanti, come comunemente si dice, nel “credere” che verrà qualche cosa di nuovo, domani, in un secondo tempo, la regola sembra essere la consumazione, la consunzione, la stasi mortale. E allora l’uomo crede soltanto alla morte, acquattato “in un angolo / interno della mente” (Scatola cinese uno: la “Porta del Passato”).

Per Barbieri l’antidoto alla morte è immanente al pensiero: la mente stessa ha il potere di fermare il tempo. Quale tempo? Non il presente, che è impregnato di fuga: già i capelli tradiscono dove sta andando a finire il giorno di oggi! Rendersi conto di esistere assomiglia al momento in cui uno, sparatosi un colpo alla nuca senza sapere che il revolver era scarico, per un attimo si chiede se è morto! È come una “lotteria”, il risveglio: la mattina ti chiedi: sono vivo davvero? E il futuro? Che cosa c’è nel futuro, a cui aspirare dicendo: questo sarà vero senz’altro? Oggi, sì, cammini: ma “dopo che avrò camminato / sulla polvere dei miei sogni / che orme potrò lasciare / nel buio del futuro?” (Dedicato a Pavese).

D’altronde il tempo passa: è una consapevolezza incontestabile, che nell’opera di Sergio Barbieri rappresenta l’essenza dell’ispirazione poetica nel suo aspetto di negazione. La vita è illusoria. O meglio, è un gioco, è “tutto un gioco” ( Un guerriero antico). Si gioca con chi, con che cosa? Col tempo, per l’appunto. Ma è un gioco beffardo: perché chi vincerà già si sa. E chi perderà è colui che a questo gioco non vuole proprio starci! È dunque il tempo, il padrone, il quale non solo è sempre vincente, ma è anche così tiranno che non permette che non si giochi con lui! Ripensi agli amici di un tempo, ripensi a tua madre, ripensi alle cose care che ti sono passate vicino nel corso della storia quaggiù, e più o meno scopri dappertutto, sui volti e sulle superfici degli alberi, tra le mani e nel cuore, perfino tra le carte che hai tenuto in un cassetto per decenni e decenni, “il passaggio / di una signora vestita / di nero” (Undici amici).

Dunque, il gioco è malvagio. E lo è perché “illude”. Non si tratta di quella illusione per cui qualcosa appare vera, mentre in realtà non lo è. Si tratta dell’inganno per cui ciò che era vero resta vero, ma ingoiato dal tempo: un “vero perduto”. La natura in effetti crea tutto ciò che realmente ti può promettere la felicità, e te la elargisce pure – “prima ti illude / con germogli rinascite profumi” -, ma poi “ti uccide con le spine / dei suoi fiori più belli” (La ragazza dell’aquilone).

Qual è il momento in cui il positivo – la gioia, la vita – era un “vero”? E’ il momento in cui “esisteva sempre il / domani”, quel domani offerto all’umana immaginazione per “attendere che il nostro / sogno più bello / ci passasse accanto” ( Undici amici). Su questa “immaginazione”, e cioè su questo specifico fattore grazie al quale il bene c’è, bisognerà ritornare: è questo fattore di “verità”, infatti, che determinerà tipicamente la conclusione globale del poeta circa la verità dell’esistere. Per ora è invece necessario parlare di quel fortunato momento, nel quale il bene è un “vero”: è il tempo della “innocenza”, è il tempo in cui “si credeva / nella vita. / E si chiedeva tutto / alla vita” (Nel nostro castello dei sogni). In questo senso, in quel tempo – che è la vera dimensione del privilegio – ci si prefigurava una realtà di gioia, di realizzazione di sé, grazie ad una spinta interiore di cui è la vita stessa a premurarsi di dotare l’essere umano. “Quale allor ci apparia / la vita umana e il fato!”, aveva già detto Leopardi. Fermare il tempo consiste dunque nel ritornare a quella condizione esistenziale privilegiata. Come? Con il ricordo.

Poter tornare al “passato” è la forza che tiene in vita il poeta e, come egli stesso dichiara, gli permette di opporsi al richiamo della morte. Come a dire: finché posso ricordare, non posso morire. E alla morte ribatte invero: “ho gli occhi / che ancora vivono / nel passato” (Anima mia).

In questa raccolta di Sergio Barbieri non compare quella dinamica del ritorno – in pratica alla fanciullezza – nel senso di una riconquista esistenziale delle condizioni interiori del fanciullo: Barbieri qui non sembra credere che si possa ritornare fanciulli. La riappropriazione della fanciullezza è solo “in memoria”, grazie alla quale comunque il “tempo perduto” diventa “il più favoloso istante” del corso della storia individuale.

Da ciò nasce, in questa raccolta più che in altre, una scrittura quasi prosaica, un registro descrittivo: come se l’autore non volesse perdere proprio nulla del suo passato, neppure i contorni particolareggiati, le memorie della quotidianità. Da ciò, ancora, deriva un approccio alla realtà che non ha nulla da guardare davanti a sé, ma solo da investigare nei “sogni” collocabili al tempo dell’innocenza: e che, come diremo subito con l’autore stesso, è anch’esso un “sogno”. La poesia diventa così un “cammino a ritroso nel tempo”, come enuncia proprio un titolo di una lirica. Più precisamente, è un inseguimento, a volte feroce, a volte dolente – per un motivo che chiarirò più sotto – di “quel bambino fiducioso che ero” (Ieri bevevamo… ma oggi?). In questo contesto si nota il ricordo di amici o della madre, ma soprattutto si ripropone il tema della collina e del fiore rosso: emblemi, nell’insieme degli scritti del Barbieri, delle esperienze di gioventù.

Ecco una plastica descrizione del cammino a ritroso di questo “vecchio” – che è tuttavia ormai “stanco di tutto” –: “Un giorno un vecchio / […] / salirà stanco ed esausto / sulla collina degli ulivi / che sovrasta il deserto / lastricato di buone intenzioni / disseccate al sole. / II vecchio camminerà un poco / per quei vecchi sentieri / su quelle ripe scoscese / […] / e fisserà in alto / la nuvola bianca / che ha inseguito per anni / senza raggiungerla. / E ricorderà che è passato / tanto tanto tempo / da quando attendeva / immobile e sognante / una ipotetica / irreale / sfolgorante apparizione / dal profumo di donna / […]” (Quelli che cavalcano le nuvole).

Ma proprio a questo punto scopriamo che l’operazione di fermare il tempo, di respingere la morte, di crearsi una, sia pur breve, “eternità” rivela i suoi limiti e dimostra quanto grave sia il pedaggio che deve pagare. Innanzitutto, il poeta non si nasconde che questa è una rivisitazione che lo “incastra”: non fa mistero di cogliersi come un bambino “incastrato” in una nostalgia di parole (Requiem per un poeta). E a che serve riandare indietro con una penna che insegue un tempo perduto, come un vecchio, in sogno, segue l’ombra di aquilone divertito? La risposta del poeta è senza veli, anche questa volta implacabile nella denuncia della verità, cioè nella inutilità di ogni tentativo di contrastare il fato:

Stanchi e ripetitivi sogni di un passato

che ritorna con i suoi ricordi

acuminati e contorti.

E poi c’è il radicale problema della fenomenologia del rivissuto. Per quanto si voglia sprofondare nell’esperienza esistenziale del passato, il vissuto attuale di ciò che è ricordato tinge di sé l’oggetto del ricordo. Il passato non può essere rivissuto secondo lo stato d’animo di allora, perché è percepito secondo quello di oggi. Ed è per questo motivo che l’autore, ogni volta che tenta il recupero memoriale dell’infanzia, finisce poi con la delusione del presente. Non solo: la stessa immagine obiettivamente, biograficamente anteriore acquista il colore – come ho detto – dello stato d’animo successivo. Perciò, ritornare “bambino” è impossibile, per mezzo del ricordo. Ne è una prova, fra le più interessanti perché è tra le più sottili, della descrizione di quella che era l’impulso alla vita quando si era fanciulli (Nel nostro castello di sogni). I ragazzi giocavano in un castello abbandonato, vi entravano quasi furtivi come a scoprire nuovi mondi,

“e i nostri occhi

ridevano

l’illusione d’eternità”.

I fanciulli tentano di fermare il tempo, di dare una “eternità” al loro momento di gioco, al loro attuale gaudio, e fissano sui muri, in qualche angolo, in un pezzo di vita e di mondo, appunto, un frammento di questo loro momento. Il motivo è per ritrovare, un giorno, tra le rughe dell’età,

“intatti

i nostri fiori

con il loro antico

profumo di gioventù”.

Orbene: il bisogno di obiettivare la vita, per una illusione di eternità che ci serva a vivere quando si sarà diventati vecchi, è un’esigenza di quando, appunto, si sarà diventati vecchi, non di quando si era ragazzi. Il fanciullo agisce d’istinto: sarà poi l’adulto, il vecchio a considerare, invece, che la immensa, prorompente speranza nella vita e la tensione verso la felicità – gioia dell’età innocente! – è legata alla nostra “capacità di immaginazione / e di sogno” (ibidem). Ed è l’adulto che, constatata la delusione della speranza, deduce che l’immaginazione è anch’essa ingannevole.

Ciò non toglie che le raffigurazioni immaginifiche dell’età vergine, o innocente, riescano, spesso, piene di un dolce fascino, che in qualche modo riporta realmente l’animo – il cuore! – a quella prima età. È ad esempio il caso del fanciullo che corre con l’aquilone “agitando pensieri di gioia” (Il ragazzo dell’aquilone). Ma la coscienza dell’oggi rimane inesorabile, pur nel dolce rimembrare, a segnalare il potere del tempo che corrode tutto: anche l’incoscienza del fanciullo. Così il poeta riflette sulla sorte impietosa dell’umana specie: contro la quale s’accanisce, “ladro e assassino”, il fuggir della vita…, e alla quale il tempo non accorda che “pochi attimi di falsa eternità” (ibidem).

Il vissuto del ricordo allora diventa pura e semplice nostalgia: per quell’arco di vita privilegiato – come s’è detto – nel quale l’“eternità” è, benché falsa, possibile. L’aquilone così assume il colore di un “pallido ricordo / di un pulviscolo bianco / che smuove le piume candide / della nostalgia” (ibidem).

L’autore, però, ha piena consapevolezza delle due dimensioni esistenziali: quella giovanile, innocente e (quasi) pura, e quella adulta, desolata e (quasi) disperata. In questa raccolta sono frequenti, appunto, le descrizioni dello svolgersi del tempo, del passare da un’età all’altra. Ne è una vivida prova La ragazza di Carda:

“La ragazza della fonte

scende sinuosa la scalinata / […] /

scende altera a piedi nudi

sospesa in un velario di sole. / […] /

Nei suoi occhi brillano

acque terse […] / […]. /

Ed il suo fresco canto si perde

dietro l’ultima curva […].

Son tornato al paese dopo / […] /

[…] anni. / […] /

[…] un

vestito […]

[…] copriva ben poco

di quel povero corpo

in sfacelo.

Scendeva ansimando

la scalinata. / […] /

Quando barcollando

risalì le pietre e l’erba / […] /

il mio orrore non aveva limiti”.

Sembra che la lezione di questa raccolta si assommi nell’orrore per il tempo che distrugge non solo le speranze: ma con le speranze anche le fattezze. Il corpo e la mente, le mani ed il cuore, i capelli ed il passo che incespica: tutto è travolto. E che cosa resta?

Solo un vestito lercio restava

del passato

della ragazza della fonte.

La conclusione, che potrebbe apparire serena nella sua obiettività, trapassa in una considerazione estensiva, anch’essa reale come la pietra:

Ecco che cos’è la gioventù se non

tante promesse

tanti sogni

che naufragano impietosi

nell’immenso mare di un

futuro in decomposizione.

Non si fa allora fatica a capire le definizioni della vita che sgorgano dalla mente dell’autore: una “desolata rassegnazione” (Requiem per un poeta), in cui il termine “rassegnazione” non sta a connotare una qualche accettazione attiva, ma una passiva constatazione di ciò che la realtà è. Fragile nella sua epoca d’innocenza, problematica nella sua riappropriazione del passato, dura nella consapevolezza del presente, la vita è un pupazzo “di cartapesta” (Una vela bianca). Meglio ancora, la vita è “infernale” (Ieri bevevamo… ma oggi?).

Ma la prospettiva da qui si allarga al cosmo: ogni cosa partecipa della medesima legge – come dicevo all’inizio – di consumazione e di consunzione. C’è una fantasmatica visione in questo senso, che ricalca la cosmogonia non della formazione dell’universo, ma della sua distruzione (Lo stupore della fine). Però la lirica che sembra meglio conchiudere l’universale meccanismo che coniuga mondo e mente in un unico gioco a perdere, è Dove nascono i sogni. Vi è immaginificamente presentificato il luogo oltre il tempo, dove è l’inizio e la fine, dove si concentra e al contempo si consuma il tempo. Il colore verde dà la sensazione di uno scenario extraterrestre, e il panorama emotivo è l’urlo che consuona di disperazione. È l’ultima parola: la “parola fine”. Alle sue spalle, un “astro spento”: anche queste “ultime tracce” – le parole – sono incise sulla aridità del deserto.

Sul silenzio (pagine 7-22). [Francesco di Ciaccia]

 

 

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