1991, LuoghiI, Il canto di Carducci
Assisi. Il canto di Carducci, «Luoghi dell’Infinito», I, 2-3 (1991) pp. 47-53.
Testo dell’Articolo
Giosuè Carducci nei mesi di luglio e di ottobre del 1877 soggiornò ad Assisi per un incarico ministeriale, come commissario agli esami di Stato. L’impressione che ebbe di quel luogo è segnalata al suo amico e poeta Giuseppe Chiarini, preside liceale e alto funzionario al Ministero della Pubblica Istruzione: “Qui il paese è veramente bello […]. Fui ad Assisi: è una gran bella cosa, paese città e santuario, per chi intende la natura e l’arte, nei loro accordi con la storia, con la fantasia, con gli affetti umani” (1).
La dimensione dell’entusiasmo resta circoscritta, in questa “memoria” biografica, al mondo esterno, condito di quella “fantasia” suscitata dall’esaltazione espressa dalla poesia di un Dante e di tanti grandi artisti. E tuttavia, anche per il poeta maremmano, laico e massone, quel luogo non mancò di ispirare sentimenti terreni. Per comprendere meglio la sostanza del sonetto assisano, occorre qualche ragguaglio comparativo con analoghi accenni carducciani.
Quando scrisse La chiesa di Polenta, una chiesa felicemente salvata da un progetto di abbattimento nel 1890, Carducci era stimolato esclusivamente dal sentimento della grandezza dell’“Itala gente da le molte vite”, quella dei grandi spiriti d’Italia, fra cui Dante, che forse “inginocchiossi” proprio in quel luogo. Anche “la voce / de la preghiera”, “la campana ammonitrice” che invita a cantare “di clivo in clivo a la campagna”, insomma la “chiesetta del mio canto […] questa / madre vegliarda”, mantengono un significato incerto tra la “madre” chiesa e la “madre” Italia. La pensosità finale della lirica – “un pensoso sospirar di quiete, / una soave volontà di pianto / l’anima invade” – ripete l’atmosfera più intima e rievocativa di Davanti San Guido e di Sogno d’estate, in cui la presa di coscienza non è di colui che teme, ma neppure di colui che crede. Inoltre, in Davanti San Guido la consapevolezza del proprio limite – “Un pover uom tu sei” – resta nell’ambito di una constatazione immanente alla vita umana, diciamo con un criterio di buon senso comune. Però, ne La chiesa di Polenta il sentimento di dipendenza dell’uomo nei confronti di un qualcosa di trascendente è più marcato, dato che all’“Ave Maria” della campana “scoprono il capo, curvano la fronte” tutti i “piccioli mortali”, compresi “Dante ed Aroldo”! Ciononostante, nella produzione carducciana il senso creaturale si confonde in genere tra la dimensione religiosa e quella puramente umana, come nella citata Chiesa di Polenta, in cui la “melodia […] invisibile fra la terra e il cielo” non appare tanto un coro di salvati, quanto un coro di gente che si riconosce nella comune tradizione culturale ed etnica.
Non è dunque l’unica volta che il Carducci percepisce, come nella città assisana, il senso dell’umiltà (2); ma è solo nell’atmosfera di Assisi, a contatto fisico, per dir così, con il ricordo del frate d’Assisi, che Carducci concepisce poeticamente l’umiltà in una dimensione squisitamente religiosa. E lega all’umiltà la morte in un’esperienza che non è una pena duramente accettata – come in Pianto antico –, ma è un segno di rinascita.
D’altra parte, il sonetto a San Francesco contiene – e con essa inizia – la consueta ammirazione carducciana per quel segno della grandezza italica che è l’architettura dei suoi monumenti.
Frate Francesco, quanto d’aere abbraccia
Questa cupola bella del Vignola,
Dove incrociando a l’agonia le braccia
Nudo giacesti su la terra sola!
“I templi di Maria e di Francesco – disse Carducci – sorgevano per le Città d’Italia spingendo al cielo le arcate […] come aspirazioni delle anime all’infinito” (3). In genere questa “aspirazione” all’infinito, suscitata dalle “arcate” (Nella piazza di San Petronio), è strettamente legata all’immagine dell’ultramillenario spirito italico. È l’esplicito significato di diverse poesie, come Nel chiostro del Santo: le “fantastiche torri del Santo” e “l’eco / tra le arcate che abbraccian le tombe” sembrano un “sonito / di mondo lontano”. Lontano nel tempo, come la chiesa di San Petronio, che “tant’ala di secolo lambe”, o come il campanile di Fiesole, che “domina allegro, come / La risorta nel mille itala gente” (Fiesole).
Ma dove non emerga lo strale contro Cristo, quel “cruciato màrtire” che “di tristizia l’aer contamin[a]” (In una chiesa gotica), può insinuare comunque l’interrogativo scettico sul significato dell’infinito. Così è Nel chiostro del Santo: “Sì come nubi, sì come cantici / fuggon l’etadi brevi degli uomini; / dinanzi da gli occhi smarriti, / ombra informe, che vuol l’infinito?”.
Non così in Santa Maria degli Angeli. Lo sguardo stupito non è di smarrimento di fronte alle “richieste” dell’infinito. È di uno stupore ammirato, privo di dubbi, ancorato in un gesto di povertà e di umiltà che, come si vedrà e per la ragione che verrà alla coscienza del poeta, è schietto, puro, circonfuso di certezze non umane. Ed è già notevole che l’immagine francescana, rappresentata da un Carducci esaltatore dello spirito italico, non sia quella di un santo “italico” – il più santo degli italiani e il più italiano dei santi, secondo una tradizione già ottocentesca –, ma sia quella di un santo “nudo”.
L’attributo “sola” della terra definisce proprio la povertà interiore dell’uomo, cioè la sua umiltà, non soltanto senza quel senso di tristezza che era, ovviamente, nella terra “fredda” di Pianto antico, ma anche senza alcun connotato di disprezzo, consueto in Carducci, per l’ascetismo cristiano. Ciò vuol dire che la “nudità” di questo santo era inquadrata dal Carducci in una visione generale pienamente positiva.
La seconda strofa riproduce, anch’essa, una connessione carducciana abbastanza comune: alla sacralità del tempo e del luogo è congiunta la dolcezza e la giocondità del paesaggio e della gente. Così ad esempio in Sant’Abbondio: “In vesti rosse / traggono le alpigiane, Abbondio santo, / a la tua festa; ed è mite e giocondo di lor, del fiume e degli abeti il canto”. Né manca la suggestione della pace interiore, come nella citata lirica: “Laggiù che dire de la valle in fondo? Pace, mio cuor; pace, mio cuor”.
Ma in Santa Maria degli Angeli s’introduce non solo un sentimento contemplativo della società civile ingentilita dalla società cristiana, ma anche un desiderio, almeno insinuato, di capire la perfetta “nudità” e l’infinita pace del santo d’Assisi.
E luglio ferve e il canto d’amor vola
Nel pian laborioso. Oh che una traccia
Diami il canto umbro de la tua parola,
L’umbro cielo mi dia de la tua faccia!
Non è estranea l’ammirazione per la “parola” letteraria della limpidissima lingua francescana alle origini del volgare italiano; però, certamente non c’è solo la fantasia di risentire, nella viva voce del canto umbro, la continuità dell’idioma che era stato di Francesco d’Assisi. Il poeta cerca anche di comprendere, di vedere, per dir così, la “faccia” del santo: e in ciò c’è poco o nulla di estetico – come invece sarà, ad esempio, nella stessa ricerca di D’Annunzio –, non solo perché Carducci non è un temperamento estetizzante, ma anche perché egli sta cercando più di ogni altra cosa, in questo componimento poetico, una ben precisa risposta: quale sia la ragione per la quale la povertà estrema (“nudità”) e l’umiltà di Francesco siano nella letizia e non nella semplice rassegnata accettazione, o peggio nella “cruciata” depressione.
Eppure, la “faccia” che Carducci inquadra dall’inizio è una faccia di morente: non già quella, più popolare – che sarà anche pascoliana –, d’un Francesco che canta alla campagna tra gli uccellini svolazzanti! Ed è una caratterizzazione strana, per un poeta che s’impegna per la vita terrena e che nella morte non vede se non un grande buio. Invece, è questa faccia di un moribondo che resta “in piedi”, a trafiggere la mente del poeta.
Su l’orizzonte del montan paese
Nel mite solitario alto splendore
Qual del tuo paradiso in su le porte
Ti vegga dritto con le braccia tese
Cantando a Dio – Laudato sia, Signore,
Per nostra corporal sorella morte!
Non c’è dubbio che il “Signore” sia “suo”, di Francesco e non di Carducci; le distanze son poste con chiarezza. Ma è altrettanto indubbio che le “porte del paradiso” non stanno ad accogliere né un maniaco, né uno scriteriato, né un autolesionista, insomma un seguace del “cruciato màrtire”: ma il seguace di un “Signore” di infinita gioia, che rende “sorella” anche la morte e che della morte fa una “porta” di vita, perché ha fatto della vita una “porta” di gioia.
L’angolatura è all’opposto di quella dell’inno A Satana, in cui s’avverte il monaco in termini molto drastici: “invan ti laceri l’aspro sacco”, e in cui si vede, in mezzo alle pratiche ascetiche, il sordo rancore, la malinconia, la tristezza soffocata dei penitenti: “Dal chiostro brontola / La ribellione”. San Francesco, invece, nella sua nudità penitenziale è trionfante, dritto con le braccia tese ad accogliere cielo e terra, pieno di lode. La ribellione del cuore lascia il posto alla benedizione totale, generosa e allietante.
A parte i colossi del genio poetico e cristiano, altri credenti hanno cantato l’Assisi francescana e il Francesco d’Assisi, e qualcuno ha fatto menzione del Carducci “pagano” che si è cimentato, da pagano, con questo tema. Ma la maggior parte dei cristiani poeti ha posto l’accento su quell’“immacolata pace” che disserra “per malia divina arte” (Elda Gianelli). È solo un esempio fra i tanti, e si può citare inoltre chi ha trovato “dolce l’ultima agonia” del Santo (M. Falcinelli Antoniacci). Il Carducci non se lo permette: la “lode” è cosa ben diversa dalla “dolcezza”! E ha ragione.
Ed è nella povertà sincera, radicata in una profonda e vera coscienzialità creaturale, è nella lode di gioia al Signore, la quale non ha a che vedere con le sdolcinature pietistiche, è in questo vissuto francescano, che io ritengo ben compreso dal poeta, che un Carducci ha potuto intravedere la possibile realizzazione di due suoi impulsi di fondo: la ricerca di pace al di là dei successi – “Pace, mio cuor; pace, mio cuor” –, e il consapevole rapporto con la morte – “E dimani cadrò […] / E sempre corsi, e mai raggiunsi il fine” (Traversando la Maremma toscana).
In San Francesco il poeta probabilmente ha intravisto, almeno per un attimo, chi ha trovato e l’una e l’altro, la pace e il fine. [Francesco Di Ciaccia]
NOTE
(1) Memorie di Giosuè Carducci, in Antologia Carducciana, Bologna 1907, p. 53.
(2) E. Santoni, San Francesco nella moderna poesia italiana, in «Frate Francesco», ott.-nov.-dic. (1924) p. 355; G. Soretti, Influssi francescani nella poesia moderna, in «Frate Francesco», gen.-feb. (1926) p. 19.
(3) A. Marchetti, San Francesco in Dante, Carducci e Pascoli, in «Cenobio», 10 (1952) p. 11.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.