1996, RicGrup, Il fantasma della libertà
Il fantasma della libertà. Libertà e vincoli in un role playing, «Ricerche sui gruppi. Organo del Laboratorio di Ricerca di Milano e Padova», 3 (1996) pagine 36-49 e 59-81.
Testo dell’Articolo
Prima parte. IL TESTO: ROLE PLAYING (9 novembre 1993)
(Silenzio di 23 giri)
1) ANNA: Non sopporto più questo silenzio (ride)
(pausa di 8 giri)
2) SEMINARISTA: Anch’io se non parlo mi sento scoppiare (esitante)
3) GLI ALTRI: È vero (con sorrisi)
4) SEMINARISTA: Ho bisogno di sentire cosa siamo venuti a fare.
5) SOFIA: Quello che io avevo capito che avremmo dovuto leggere un personaggio di un racconto, cercare di immedesimarci un po’ in questo personaggio e portare le questioni al gruppo. Mi sembra di aver capito questo.
(pausa di 16 giri)
6) SEMINARISTA: Non ce la faccio… visto che non ci conosciamo.
7) RAISA: Ecco, appunto, presentiamoci… non so. Diciamo perlomeno i nostri nomi (ridendo)
8) RAISA: Parto io? Vado? Allora… dunque, io mi chiamo Raisa Milovna e sono sposata con un sacrestano molto infelicemente e… niente… passo le giornate in casa e… spero solo che da un momento all’altro entri qualcuno dalla porta che mi possa fare compagnia. Nel senso che con mio marito non ho assolutamente nulla in comune e cerco così qualcun altro con cui per lo meno parlare.
9) ANNA: Beh, io… anch’io sono sposata. Mi chiamo Anna e… sono infelice. Non so neanche bene come. Quando… anche io per mio marito. Perché lui… mio marito è un farmacista e… non esiste niente altro. Inizialmente non era proprio così, poi non so come, non so perché… ma capisco quello che lei dice perché per me è lo stesso. Per questo dicevo anche prima il silenzio. Non lo sopporto… non lo sopporto perché non lo sopporto neanche in casa più e… ho bisogno di sentire voci. Ho bisogno di qualcuno che mi ascolti, perché lui no! Lui non mi ascolta ehm…
10) RAISA: Ma siete solo voi due? Cioè non hai qualcuno…
11) ANNA: Sì, sì, siamo noi due soltanto. Siamo sposati da diversi anni… però col tempo, penso che sia così un po’ per tutte le coppie, a sentire anche lei, ci siamo abbastanza allontanati.
12) RAISA: In realtà noi non è che da tanto tempo ci siamo sposati. Il problema è che ci siamo sposati così, senza amore, perché bisognava sposarsi. Mio padre ha voluto che sposassi lui perché sacrestano pure mio padre, per cui tieni il posto, stai lì e sposati con lui. Però, in realtà, amore non c’è mai stato… proprio nessun genere di affinità, quindi mi sono sposata perché probabilmente era da fare, però in realtà lo volessi non con lui sicuramente.
13) RAGAZZA: Ma perché lo hai accettato?
14) RAISA: Non lo so neanche io. Probabilmente perché pensavo, forse che avrei fatto la stessa vita che facevo con mio padre; tutto sommato non era neanche male, perché mio padre era una persona molto speciale, veniva gente un po’ dappertutto per parlare con lui, per cui ci si sentiva sempre in compagnia. Era tutta un’altra atmosfera. Invece da quando mi sono sposata la mia vita è cambiata totalmente. Siamo io e mio marito e… cioè io da sola perché con lui non c’è la possibilità di un dialogo.
15) NADIA: Io sono riuscita a scappare da questa trappola, diciamo. Comunque io mi chiamo Nadia e dovevo sposarmi con un ragazzo e invece ho deciso di mandare tutto all’aria, perché mi sono resa conto che non lo amavo, perché non sarei riuscita a vivere con lui tutta la vita, per cui sono andata via. Ho lasciato tutto quanto e sono venuta in un’altra città a studiare, proprio perché non riuscivo più a sopportare quello che un tempo mi sembrava normale, vivere con mia madre e mia nonna. Perché mio padre non c’è… insomma… e allora mi sembrava normale, perché vivevamo anche abbastanza agiatamente, quindi mi bastavano le cose un po’ superficiali. Poi invece ho conosciuto una persona molto importante per me, un amico di famiglia che mi è ancora amico, con cui sto bene, che mi ha fatto capire ciò che effettivamente conta nella vita. Bisognava, secondo lui, cambiare E… rovesciare quello che era il corso degli eventi, cambiare la propria vita. Ed è in fondo quello che ho fatto io andando via perché…
16) ANNA: Ma andando via dove?
17) NADIA: Sono andata a studiare in un’altra città per un anno e tuttora sono via: però, dopo un anno sono tornata a casa, perché mi mancavano un po’ (sorridendo appena). Comunque erano sempre la mia famiglia: però mi sono resa conto anche quando sono tornata di nuovo che per me quello non era più il posto dove stare, non mi sentivo più a casa mia. Io ho bisogno di andare via, di essere libera. Ma, non libera da vincoli famigliari, ma libera di pensare o di agire come volevo io, soprattutto di pensare.
18) OLGA: Ma adesso stai bene?
19) NADIA: Io sì, benissimo.
20) OLGA: E allora, perché sei qua?
21) NADIA: Sono qua perché, comunque, ripensando alla mia vita mi rendo conto che ci sono stati dei momenti in cui ho sofferto molto, perché ho dovuto prendere delle decisioni che non coinvolgevano soltanto me, ma anche delle altre persone che ho fatto soffrire e un po’ mi sono sentita in colpa. Perché quando chiaramente un ragazzo si sente mollato dalla sua ragazza, dopo aver preparato casa e tutto quanto non che si sta bene. Per, stranamente mi sono proprio sentita liberata da un peso quando l’ho lasciato e poi ovviamente anche per i miei, perché mia madre io la consideravo una persona speciale, per quando ho deciso di andare via, lei è un po’ cambiata nella mia mente, la vedevo più volubile, più superficiale, un po’… debole anche, come tutte le altre persone, mentre prima per me era un mito, un idolo, una persona da imitare in tutto e per tutto, poi mi è crollata ed anche questo mi ha fatto soffrire.
22) ANNA: Ma adesso che hai lasciato quest’uomo…
23) NADIA: È un ragazzo.
24) ANNA: Va beh! Ma… cioè voglio dire ehm… non hai temuto la solitudine, non hai temuto… perché io vorrei avere, andare via, la mia situazione è diversa, perché con il matrimonio come si fa…
25) NADIA: Chiaramente!
26) ANNA: È molto più difficile. Però non riesco ad immaginarmi… completamente sola… infatti quello che vorrei proprio un dialogo e non c’è dialogo con lui. Però se io lasciassi non ci sarebbe proprio più niente e invece vorrei tanto già avere un punto di riferimento, qualcuno su cui appoggiarmi, perché… qualcuno che mi corteggi, che mi cerchi…
27) NADIA: Ma io ho avuto una persona importante nella mia vita che non c’entra niente con rapporti amorosi vari; è soltanto un amico che però mi ha aperto gli occhi e mi ha fatto capire quello che giusto e quello che è sbagliato. Non è giusto sprecare la tua vita per ehm… ehm… non so come dire. Cioè… secondo me non devi sprecarla per compiacere qualcun altro.
28) SOFIA: Secondo me il problema… (timidamente).
29) NADIA: È la tua vita!
30) SOFIA: Il problema che, per esempio, potrebbe essere il mio, è quello proprio di capire cos’è che conta e cos’è che sia giusto, perché tu, giustamente, tu hai detto che: “adesso sono felice”, no? Forse proprio perché sei riuscita a fare quello che volevi, prima ancora perché hai capito che cos’è che volevi. Mentre, per esempio, a volte mi rendo conto che il mio problema è proprio quello di avere tante cose che sono importanti tutte allo stesso modo e di non poter sceglierne una e non saperne scegliere una, proprio perché, quando troppe persone, tutte magari in modo superficiale ma che però volta per volta sembra un modo vero e autentico, no? Allora poi appunto diventa difficile fare delle scelte, perché diventa difficile capire cos’è importante e cosa si vuole…
31) NADIA: Quello è il problema…
32) SOFIA: Forse per quello che magari che tu dici: “sono felice” e io magari dico: non sono felice, proprio perché forse non ho capito che cos’è che…
33) NADIA: Che conta.
34) SOFIA: Sì. O anche lei (rivolgendosi ad Anna), diceva. Forse anche lei o l’altra… dicevano appunto non vedo cosa potrebbero volere di diverso.
35) ANNA: (lamentandosi) Ma io so quello che voglio! Cioè, io ho bisogno di una persona accanto, che… che mi veda, che mi dica “sei qui, io sono qui”, ma tu sei qui, (tentennando) lui… lui no, non esisto quasi più. Eppure, eppure mi dice ehm… magari gentile anche ma… non so… non vorrei… ehm… l’altra sera mi sono ritrovata… non riuscivo a dormire assolutamente… e… non capivo cosa fosse, cioè… poi a volte vorrei anche piangere, non riesco neanche, ho un blocco, non so (sospira)… mi ritrovo per strada a guardare le persone, a dire mah! Se… magari se una persona mi può anche sorridere, un uomo mi sorride e… ed io sono contenta e… e… e poi, mi metto triste e… ecco! Magari… perchè io so che vorrei che lui, cioè! lo so dov’è il mio problema, non so per come dirlo, perché… non mi ascolta, non ci sono! Quindi, anche si sa quello che cerca, quello che uno vorrebbe… come fa poi? Io… io non riesco…
36) RAISA: Ma tu pensi che lui vorrebbe capire quello che provi? Cioè, se tu riuscissi a trovare la via per comunicare ancora come comunicavate un tempo, pensi che sarebbe ancora in grado di capire… di ritrovarsi un po’… di essere quello che era un tempo?
37) ANNA: (dubbiosa e sfiduciata) Non so, non so…
38) RAISA: Ma lo ami ancora?
39) ANNA: Non lo so!
40) NADIA: Dovresti saperlo (sorridendo).
41) RAISA: Ma non è facile (dolcemente).
42) NADIA: Ma è l’unico modo che c’è (pausa brevissima).
43) RAISA: Ma, io perlomeno sono felice o perlomeno ho una parvenza di felicità solo quando qualcuno entra in casa, proprio perché io ho il problema opposto al tuo, se vogliamo: mio marito mi vede troppo, io preferirei non mi vedesse proprio, capito? Preferirei uscisse dalla mia vita, pur continuando a rimanere sposati, perché é chiaro, ormai siamo sposati punto e basta, per preferirei che mi ignorasse che mi lasciasse stare così nel mio mondo, che è fatto di sogni, sostanzialmente, io, in ogni persona che varca la soglia di casa, vedo il principe che potrebbe portarmi via capisci? Quindi proprio una solitudine, se vogliamo, senza speranza. Io con mio marito non ho niente da spartire.
44) OLGA: Io non sono d’accordo sulla frase: “tanto ormai siamo sposati”. Nel senso che io l’ho lasciato e adesso vivo da sola. Dal punto di vista sentimentale sto molto bene, voglio bastare a me stessa e sto combattendo per essere autonoma, nonostante i problemi che ci potrebbero essere di fronte alla società che può… contestare queste decisioni. Però, ehm… nello stesso tempo io ho reagito nel modo opposto, cercavo… proprio perché prima ho manifestato troppo i sentimenti, adesso mi nascondo, quindi non manifesto più a nessuno quello che io provo, che sento, le mie emozioni sono solo mie, proprio perché, forse, il mio vivere insieme ad una persona che non in grado di starmi ad ascoltare non è stato sufficiente. Per cui, in questo momento, preferisco barricarmi e fare finta di essere un’estranea per tutti, piuttosto che affrontare al momento un problema sentimentale di questo tipo. Che poi il problema della vita non è solo, penso, legato al dipendere o al non dipendere da un uomo, penso che sia molto più ampio e bisogna avere il coraggio di essere autonomi e indipendenti, senza perdere il proprio aspetto emotivo ed affettivo.
45) RAISA: Sì, effettivamente il tuo è stato un atto di coraggio, ma vedi, io probabilmente sono condannata, se vogliamo, perché ho sempre vissuto nell’ambiente della chiesa fin da quando ero bambina e quindi deve esserci dentro di me che in ogni caso, pur essendo cosciente della situazione proprio tragica che sto vivendo, c’ qualcosa che mi impedisce di reagire, forse, forse… l’ambiente. È l’unico modo che conosco per vivere, seguire gli insegnamenti che mi sono stati dati e stare con l’uomo che stato scelto per me. È per questo che l’unica mia via di uscita sono i sogni. Addirittura, mio marito mi accusa di provocare il maltempo per fare entrare qualcuno a ripararsi in casa nostra. Mi piacerebbe essere davvero capace di farlo, probabilmente non farei più tornare il sole (ridendo), chiaro!
46) SEMINARISTA: (timidamente) Sempre questa colpa dei mariti, sempre… vorrei dire… sempre colpevoli della situazione, lo vorrei dire che qualche volta… potrebbero influire forse troppo i genitori nelle scelte che facciamo, per esempio nel mio caso, sono stato troppo condizionato dai genitori nel seguire quello che ha fatto mio padre. Cioè, sono seminarista e quindi mi sto preparando a diventare prete, prete… però… ormai no, sono verso la fine, ma non sono del tutto convinto di questa scelta, anch’io sto andando in crisi, verso la fine, verso le scelte finali, forse perché mi rendo conto che oramai… dovrei incominciare a pensare un po’ anche con la mia testa e invece forse ho fatto la scelta che ha voluto mio padre, per fare contento lui.
47) NADIA: Pure tu, insomma.
48) ANNA: (ridendo) Ma non sappiamo proprio agire, tranne qualcuno qui, siamo proprio messi male, perché siamo tutti incatenati.
49) NADIA: (sovrapponendosi) L’unica forte sono stata io (ridendo).
50) VANIA: Parlate tutti di problemi con qualcun altro. La mia storia è stata un po’ diversa. Paradossalmente io non ho avuto problemi con nessuno, perché… non ho avuto una famiglia, sono stata allontanata quando ero molto piccola ehm, da mio nonno, alla morte di mia madre e… mio padre non l’ho mai conosciuto, non ne ho neanche mai sentito parlare e ho vissuto come un orfano senza nessuno che si occupasse di me. E questa solitudine è stata così profonda, così inevitabile che quasi adesso mi sembra inevitabile, mi sembra quasi l’unica, l’unica possibilità di stare e… pensavo a quando tu dicevi che i genitori ti obbligano in qualche modo a seguirli e… sarebbe bello poter seguire un genitore: poi, magari, chissà, pentirsene, per intanto avere qualcuno, avere delle radici, sentire di avere qualcuno che ti condiziona e, perché no, ti dà la possibilità di sfogarti, utilizzandolo come pretesto per avere fatto degli errori.
51) SEMINARISTA: Ma se ti fa sentire che è l’unica cosa importante perché anche lui lo sta vivendo, forse non è una vera guida, cioè non ti fa sentire te stesso come diverso… ma… ma ti può, come dire, questa è la strada che è giusta per te e poi ti rendi conto troppo tardi che forse hai sbagliato.
52) RAISA: Ma non è ancora troppo tardi per te.
53) NADIA: Per non sai ancora quello che vuoi.
54) SEMINARISTA: Per la preparazione di base che ho ormai, così, sempre teorica, ascoltando i vostri problemi, le vostre vite… mi fa sentire che forse è tutta un’altra cosa, il Vangelo, la parola di Dio è tutta un’altra cosa che bisogna vivere, che bisogna sicuramente… assumersi forse una responsabilità più vicina alla realtà che distante.
55) RAISA: Senti che è inutile quello che stai per fare?
56) SEMINARISTA: Certo!… e infatti sono venuto qui anche per questo, in un momento di riflessione…
57) RAISA: Ma guarda, io ti dico, io ho seguito il volere di mio padre perché era la persona più importante, perché… perché pensavo fosse giusto e adesso mi rendo conto che probabilmente se lui stesso fosse qui non sarebbe felice della vita che faccio. E quindi penso che prima o poi tuo padre se ne renderebbe conto del fatto che non è stata una scelta tua e forse il dolore sarebbe ancora maggiore della delusione immediata che tu gli daresti se… lasciassi tutto adesso.
58) SEMINARISTA: II problema è che, forse, vado avanti per il piacere che ha mio padre di vedermi continuare.
59) RAISA: E non hai pensato al dolore che potrebbe provare nel vedere che tu non fai bene quello che dovresti fare?
60) SEMINARISTA: Forse non ho mai provato ad esprimerglielo, forse non ho parlato, forse non ho mai veramente… raccontato questi miei senti menti.
61) NADIA: Io l’ho fatto, ma non mi ha capita. Io ho detto che non volevo sposarlo quel ragazzo là, glielo ho detto apertamente, ho detto: “non lo amo, non lo voglio”, lei mi ha detto: “passerà, capita a tutti”…, (sorride)… a quel punto veramente mi sarebbe venuto di prenderla e buttarla fuori dalla porta.
62) RAISA: Tua madre, questa dici?
63) NADIA: Sì, mia madre! Anche perché per lei era normale sposare un uomo senza amarlo, lei ha sposato mio padre senza esserne innamorata e se io avessi fatto come ha fatto lei, solo per compiacerla, come tu vorresti fare con tuo padre, sarei stata infelice per tutta la vita. Io, adesso, ci sono dei giorni in cui veramente mi sento triste per quello che ho fatto a loro, diciamo, però ci sono dei giorni in cui veramente sono felice e questi giorni di felicità non li avrei mai avuti se lo avessi sposato.
64) SEMINARISTA: Ma bisogna scappa re allora per fare questo?
65) NADIA: Io sono scappata, ma sono anche tornata.
66) SEMINARISTA: Vivere nello stesso ambiente con le persone che hanno visto camminare, raggiungere certe cose e poi cambiare da un momento all’altro, non è facile.
67) NADIA: Ma certe volte però è l’unica via di uscita, perché una persona che ha anche una certa età è abituata a pensare in una certa maniera, non riuscirai mai a cambiare quello che pensa; anche se ti vuole bene, la sua struttura mentale ormai è quella e non perché voglia costringerti a fare delle cose, ma semplicemente perché lei è così. Però tu non puoi essere la fotocopia di una certa persona, tu sei una persona diversa e devi ragionare con la tua testa e anche sbagliare, perché, nel mio caso, per esempio, io potevo anche sbagliare, poteva rivelarsi un fallimento tutta la situazione, tutta la mia scelta. Fortunatamente non lo è stato, però, anche se ci fosse stato il fallimento, sarebbe stato mio, non un fallimento dovuto agli altri. È questo quello che mi ha spinto ad agire, ed è questo anche quello che mi fa soffrire, perché comunque io voglio molto bene ai miei genitori, ai miei parenti, anche mia nonna, però… non riesco a condividere la vita che conducono e allora… c’è una specie di conflitto dentro di me perché gli voglio bene, ma allo stesso tempo li odio, odio forse è una parola troppo grande, però… c’è un conflitto veramente, una rivalità dentro di me rispetto a loro.
68) ANNA: Ma poi questo conflitto diventa aperto? O… cioè.
69) NADIA: No, no. Io quando sono tornata a casa la prima volta dopo essere andata via, li ho visti davanti alla porta di casa e… mi sembravano completamente diversi e sicuramente anch’io sembravo diversa a loro, perché hanno capito che i tempi di una volta non sarebbero tornati mai, perché io ero diversa, però… non abbiamo mai avuto scontri frontali dopo che io sono andata via, perché l’hanno accettato in un certo senso che io sono andata via, che era stata una scelta, magari non lo condividevano, perché non l’hanno condivisa, però l’hanno accettata in parte, in fondo. E poi non mi sento di aggredirli apertamente per qualcosa di cui mi rendo conto non hanno colpa. È un problema mio non è un problema loro, cioè non li posso incolpare.
70) RAISA: Sei sicura che non li incolpi di niente? Cioè non ti sei mai sentita abbandonata o tradita…? Perché… loro…
71) NADIA: No, tradita proprio no.
72) SEMINARISTA: Da dove trai tutta questa fiducia, così in te stessa?
73) NADIA: Non lo so.
74) SEMINARISTA: Perché, è giusto anche come dice lui, forse i genitori servono per indirizzare e poi… sai che da loro puoi sempre trovare caldo, accoglienza, rispetto; dipendente forse da quello che fai.
75) NADIA: Ma io lo trovo l’affetto in loro, perché sta proprio in questo il rapporto che si è stabilito adesso tra noi. Mentre prima mi trattavano come una cosa che non aveva una testa, che era già stabilito che doveva fare così e basta. Adesso, forse, mi illudo che mi trattino come una persona che ragiona… non lo so… però, c’è un certo cambiamento positivo.
76) VANIA: Scappare forse non vuoi dire andare via da quelli che sono realmente i tuoi genitori, ma forse da quello che rappresentavano in quel momento. I tuoi genitori ti impedivano di fare quello che volevi?
77) NADIA: Probabilmente sì.
78) TERAPEUTA: Vediamo quello che sta succedendo nel gruppo. Il gruppo inizia con un silenzio che da fastidio, ma che si fa fatica a interrompere, no? Il silenzio da fastidio, però non si inizia se non attraverso un permesso di conferma su quello che stiamo per fare. Poi il gruppo si snoda su due temi: i vincoli, le scelte definitive, il matrimonio in cui uno è ormai incastrato e la libertà, la libertà di fare la scelta alternativa di Nadia. E, mi sembra, che Nadia sia la persona che rappresenti maggiori problemi per il gruppo e infatti questa libertà subisce un pochino di aggressività. Io ho sentito aggressivo l’intervento: “ ma tu cosa stai qui a fare?”, come se ci fosse una differenza, cioè lei è quella che ci è riuscita. Oltre tutto questo intervento è venuto dalla parte del gruppo che è riuscita a fare lo stesso tipo di operazione. E poi si parla, nel frattempo, anche di solitudine e la cosa interessante è che viene fuori un altro tema: l’uomo è quello che rende infelici, sole, oppure quello da cui separarsi. C’è la parte maschile del gruppo che sta in silenzio, finché lui (seminarista), interpretando questo senso persecutorio, dice che questi uomini non sono così cattivi. Però, non può mettersi completamente in questa parte, perché lui fa il seminarista, quello che per definizione esclude questa parte. C’è l’altra parte maschile che si sente esclusa da queste situazioni relazionali intricate ma che, in realtà, si trova in una situazione di solitudine molto simile a quella di altri elementi del gruppo. Qui abbiamo una situazione di incomprensione: “mio marito non mi vede nemmeno”, lì abbiamo la solitudine di un genitore assente e quindi c’è sullo sfondo questo tema del rapporto con i genitori che accomuna i due uomini del gruppo: il genitore troppo presente e il genitore troppo assente.
79) VANIA: Mi viene in mente una cosa, loro due hanno problemi con il marito e, ricollegandoci al problema degli uomini così cattivi, forse, se ci fosse stata qui mia madre, forse avrebbe avuto lo stesso problema, io comunque non ho saputo di mio padre, non so chi sia, chissà, magari questi uomini tanto cattivi ci sono davvero.
80) OLGA: Forse, (non si capisce), io penso che noi siamo ancora vittime di una società che stabilisce dei ruoli e quindi l’uomo deve ricoprire il ruolo di uno che lavora, che porta a casa lo stipendio, che si occupa dell’aspetto remunerativo dei figli, mentre la donna è quella che sta a casa e che aspetta l’uomo che torna e che dice: “hei, ciao cara, come stai?”. Penso che sia difficile svincolarsi da tutti questi ruoli che, in un modo o nell’altro, ci vengono insegnati fin da quando eravamo piccoli. Al bambino: “no, non toccare questa bambola, cosa stai facendo?”. È ovvio che poi, quando noi cresciamo, ci ritroviamo a dover combattere con questi ruoli. Forse non esiste il buono e il cattivo, esistono persone più o meno condizionate da uno status, da imposizioni strettamente culturali. E non mi sento di accusare mio marito per quello che mi ha fatto. L’ho lasciato perché lui era troppo legato al suo lavoro e allora, quattordici ore al giorno, tornava a casa e non mi guardava nemmeno in faccia e allora, ad un certo punto basta. Vuoi fare l’uomo che mantiene la famiglia? Non mantieni me, mantieni qualcun altro. A questo punto, sto cercando di ricostruirmi una vita e forse nel mondo esistono uomini non così presi da questo ruolo e disposti a…
81) VANIA: Diciamo che, secondo me, quello che dici tu, lasci un marito come cambi un vestito che è andato fuori moda.
82) OLGA: Diciamo che le emozioni ci sono, ma non… non vengono espresse.
83) ANNA: Ilo non sopporto questo modo di non esprimere (non si capisce), beati voi. Beati voi a questo punto, io, io vorrei urlare certe volte e dire: “sono qua, sono qua!”, niente e io… e la cosa bruttissima che mi sta contagiando perché, quando ci siamo sposati era una cosa normale, poi, poi… io continuo a dire non so, non so cosa sia successo, so soltanto che io voglio venir fuori, ma non voglio lasciarlo… voglio semplicemente riprendere ad esistere con lui. Lui… lui… lui… ormai… io non sopporto la gente che non esprime le emozioni, perché sto diventando anch’io così e non mi sopporto più così… ecco.
84) RAISA: Ma, scusa, tu non pensi magari che potresti aver avuto un ruolo nel cambiamento di tuo marito? Non è magari che anche tu dopo sposata sei cambiata, eri diversa con lui e non te rendevi conto, però non può essere anche la sua una reazione?
85) SEMINARISTA: Anche lui, forse, si lamenta.
86) ANNA: Macché! Tutto farmacia, farmacia e farmacia. È tutto contento quando i clienti stanno male, quando vanno a chiedergli (ridendo) le medicine, io…
87) SEMINARISTA: Forse è un modo di difendersi da te, dal tuo modo di comportarti. Non pensi che anche noi, rispondendo ai discorsi dei ruoli, probabilmente anche noi, conoscendo che c’è questo ritmo forse troppo frenetico di lavoro e quindi casa, diciamo: “ma no, noi non cadiamo domani come (non si capisce), quando troveremo un lavoro, quando faremo una famiglia”; però siamo un po’ costretti a farlo per mantenere anche la famiglia e allora… dobbiamo subire anche queste ore in più e ci distacchiamo anche dalla famiglia, per mantenerla. Sembra un controsenso.
88) ANNA: E noia!… noia, solitudine… e… non è che sia proprio arrabbiata, vorrei… tornare a divertirmi con lui.
89) RAISA: Ma con lui, però.
90) ANNA: Sì, con lui.
91) RAISA: Non è che sogni un altro uomo?
92) ANNA: No! (interrompendo), io mi ritrovo a sognare, a fantasticare altri incontri proprio perché non riesco a sopportare la solitudine, ma… se lui si riaccorgesse di me, io sarei contenta, non cerco necessariamente qualcun altro, solo che non riesco neanche a dire “ciao, chiudiamo tutto qui, basta! Perché non ne posso più”, perché io… sento come che… cioè nel momento in cui, ehm… gli dico che non, che non va bene, io non dico semplicemente “non va bene”, dico “basta, non mi sta più bene, ciao!”. Non riuscirei a farlo, perché non voglio star sola, ho paura della solitudine, quella forse anche fisica, dovermi spostare, dover andar via, io non so come tu abbia fatto, sei lì… non so…
93) RAISA: Forse lei si è accorta che non lo amava più.
94) OLGA: Sì, io pure (non si capisce), del mio tempo per pensare, per vedere se forse il problema non era il mio, ma era il suo, cioè… il contrario; se il problema era il mio e non il suo, nel senso che, pur essendo stata io la causa della fine del nostro matrimonio, forse ero io quella che non lasciava aperte le porte e che non permetteva a lui di entrare e di capire come ero fatta io. Io infatti non esprimo emozioni, non esprimo sentimenti, forse non lo facevo neanche con lui… e il matrimonio è finito, è naufragato per colpa di entrambi… adesso devo un attimo rimettermi a posto, ricostruirmi, vedere se riesco a vivere in un modo nuovo. E poi, forse, si vedrà se ritornare con lui o con qualcun altro. Comunque la solitudine è brutta ma, piuttosto che dire: “non ti lascio, perché ho paura di restare sola”, ho preferito dire: “ti lascio, ma sto da sola”, perché io voglio sapere, come diceva giustamente prima Nadia, io devo capire se voglio bene ad una persona oppure no, non posso rimanergli insieme perché ho paura della solitudine. E, secondo me, da quello che dici tu, Anna, non riesco a capire se tu vuoi stare con lui perché lo ami o perché hai paura di essere sola… perché in realtà l’essere soli è un annientamento, però aiuta a… a ripartire.
95) TERAPEUTA: Mi sembra che stia nascendo un nuovo tema nel gruppo. Il gruppo è rimasto ancora un po’ nella fase della “colpa è tutta dell’uomo”, no? Per un certo tempo, tanto che anche il bambino ha detto: “ma, forse, è vero che gli uomini sono tanto cattivi”, no? E poi è stato tirato fuori da questa situazione da Nadia, ancora una volta, che sembra esprimere nel gruppo la voce della responsabilità. Tra l’altro, nel racconto precedente di Nadia, c’è stato un punto importante, in cui parlando di una repressione famigliare, sembrava che parlasse del padre e invece era la madre, era la madre che le consigliava di sposare un uomo che non la amava, quindi è come se avesse portato una madre cattiva, però il gruppo si è accorto ma non ha colto, ed è andato avanti con l’idea dell’uomo cattivo, con anche la collusione della parte maschile. E poi è riemerso da questa situazione attraverso un discorso di responsabilità, cioè che cosa fai tu per tirarti fuori da questa situazione e anche di: “era mia la responsabilità se il matrimonio non andava”. Quindi, mi sembra che questo discorso della responsabilità sia molto importante per il gruppo, che aiuta a superare questo empasse, dove la parte maschile viene buttata fuori e considerata cattiva, la parte o che rende infelice o da abbandonare.
96) SOFIA: Infatti, volevo chiedere ad Anna, se lei era scontenta solo del marito o anche un po’ di sé, perché di tante cose che lei ha detto…
97) ANNA: (pausa) Mah!… Io vorrei reagire. Sono scontenta forse perché non riesco a trovare la forza, non ho la forza… sono scontenta perché vorrei reagire e non riesco e mi sento un po’ un topo in gabbia.
98) SEMINARISTA: Perché devi trovare la forza di mollare tutto e di andare via da sola.
99) ANNA: No, ma almeno la forza di reagire, di fare qualcosa…
100) SEMINARISTA: Ci sono dei figli di mezzo?
101) ANNA: Ci sono?
102) SEMINARISTA: Ci sono figli di mezzo?
103) ANNA: No, non abbiamo figli.
104) SEMINARISTA: Potresti, potresti chiedere un figlio.
105) ANNA: Ma no, ma no.
106) SEMINARISTA: Potrebbe essere un riavvicinamento.
107) ANNA: Chiedere un figlio? Chiedere a lui un figlio? Non sa neanche… (tutti ridono molto)… ormai ciao (ridendo).
108) RAISA: Almeno il latte lo avete in farmacia, è più contento, si sente più coinvolto. No, voglio dire per lo meno si interesserà alla dieta del pargolo, visto che è farmacista…
109) ANNA: Sì, sì. Contentissimo con le pappe e le pappine… ci mancherebbe… no, no, figli no.
110) SEMINARISTA: Potrebbe essere un riavvicinamento, non dico che sia…
111) RAISA: Non vorrei mai che fosse un bimbo come era lui (indica Vania), con un padre completamente assente e una madre che non desidererebbe parlare del padre, magari.
112) SEMINARISTA: Questa volta però lo sceglierebbero assieme.
113) RAISA: Cosa?
114) SEMINARISTA: Si porrebbe più avanti lei di suo marito, la aiuterebbe a capire qualcosa di più, se fino adesso non…
115) VANIA: Se (non si capisce), i genitori che diventano genitori consapevolmente, figurati loro che hanno già problemi.
116) RAISA: Giusto! Poi ci andrebbe di mezzo il bimbo, effettivamente.
117) ANNA: No, io non me la sentirei neanche, perché io ho bisogno di avere, io ho bisogno… io voglio avere qualcosa e non ho assolutamente la voglia di occuparmi… e sarò anche egoista, va beh, non so… probabilmente sono egoista… io voglio innanzitutto… non potrei dire niente a questo bambino, forse, perché… io vorrei prima essere riempita di qualcosa, di amore, di attenzioni, di… poi, poi si vede non…
118) SEMINARISTA: Perché non provi a parlarne?… Potrebbe essere veramente qualcosa che… forse non ci hai mai pensato (non si capisce), a volte basta poco… per… poter riaccendere qualcosa che era spento… da, da tanto tempo.
119) TERAPEUTA: Mi sembra che il seminarista sia stia già calando nel ruolo futuro (tutti ridono molto).
120) SEMINARISTA: Devo prendere coscienza di quello che dovrò fare.
121 )ANNA: Ecco, ma, io volevo dire, cosa ne sai? Io… io… cosa ne sai? Come? Come? Scusa, ma devo proprio dirtelo… perché… ehm… devo parlare, sì, d’accordo, torno a casa… ehm… devo parlare… lui parla dei cataloghi che deve avere, dei ritardi.
122) SEMINARISTA: Buttali via, prova.
123) OLGA: Ma, un tempo, di cosa parlavate?
ANNA: Un tempo? Un tempo parlavamo… un tempo ci divertivamo. Ehm… facevamo piccole cose insieme, passeggiate, e ehm…. ascoltavamo musica, poi il lavoro…, il lavoro forse che ci ha allontanati, perché lui ha sempre amato molto studiare prima e lavorare dopo.
125) VANIA: Perché non vai a lavorare con lui?
126) ANNA: …Io odio il suo lavoro.
127) VANIA: Potresti provare.
128) ANNA: …Io… Io aiuterei (sorride) ad affondare con il suo lavoro… perché c’è il suo lavoro appunto. Avesse una donna! Direi: “bene, è una donna”, potrei… forse mi sentirei più, come più… ehm.
129) VANIA: Non ti costa tanto, sai, provare. Perché se avesse una donna, ehm… metti se, in realtà hai messo un problema ancora più grosso, no? Forse l’avere una donna è ancora più grosso che l’avere un lavoro che ti impegna, perché di fronte ad un’altra donna magari tu non potresti reagire; invece, di fronte ad un lavoro, tu puoi provare a lavorare con lui, se davvero ci tieni.
130) SEMINARISTA: Pensa ad alleggerire il lavoro che… in cui proprio lui è fissato.
131) ANNA: Ma perché devo partire io? È questo che io non capisco, perché devo fare io questi passi, perché, perché non si accorge di niente?
132) SEMINARISTA: Hai detto tu che sei innamorata, lo hai detto tu.
133) ANNA: No, io non sono innamorata, io so che… ci tengo, d’accordo, perché del resto da tanti anni ci conosciamo, però… non posso dire di essere ancora innamorata.
134) RAISA: Ma neanche di non esserlo.
135) ANNA: No, non so… non so ancora, non so niente: io so che vorrei… se non ridere, almeno piangere con lui, incominciare… così e piangere e invece, neanche questo riesco a fare.
136) RAISA: Io, sinceramente, ti invidio molto, perché, d’accordo anche tu sei incastrata in una situazione matrimoniale così, che non va certo a gonfie vele, però per lo meno è tuo marito, tu lo senti come tuo marito, vuoi fare qualcosa, creare qualcosa con lui, per cui non sei sola se ci pensi bene, perché la persona che tu vuoi accanto a te, d’accordo è indifferente, è assente forse, per qualcosa puoi sempre fare. E invece io sono condannata a stare con una persona… di cui non mi importa niente.
137) ANNA: Ma tu ti condanni da sola, scusa.
138) RAISA: È vero, io mi condanno da sola, ma anche tu, voglio dire, perché… capisci, io… io vorrei scappare, ma veramente, tutte le volte che entra qualcuno dalla porta, così, veramente vorrei andare via con lui, bello o brutto che fosse, non mi importa niente, pur di andarmene veramente, poi non lo faccio perché sono stupida, probabilmente perché sono cresciuta così, bisogna fare così, punto e basta. Però, sentire te, che potresti avere una vita matrimoniale felice e non c’è l’hai, perchè dici: “perchè io?”, cioè veramente.
139) VANIA: Tu non sei quella che se ne deve andare via, però sai, quella è casa tua, forse è per quello che tu…
140) RAISA: Ma, non la sento più casa mia, cioè, a me basta che ci sia lui in giro per… per sentirmi estranea a tutto, capito?
141) SEMINARISTA: Però, hai capito, non fuggendo, che andando con il primo che viene a trovarti, non hai questa paura di cadere nella stessa situazione?
142) RAISA: No, non ho paura di cadere nella stessa situazione, perché (ridendo), peggio di così, credo proprio che io non potrei stare, sinceramente. Veramente, a me basta lo sguardo di un altro uomo, qualsiasi cosa per accendermi, per vivere, capito? E quando la porta si chiude alle spalle di qualcuno, io ritorno a spegnermi, aspettando che si riapra di nuovo.
143) NADIA: Ma, perché per accenderti, come dici tu, c’é bisogno che sia qualcun altro? Non puoi magari fantasticare per i fatti tuoi, immaginare di essere in un altro posto? Tante volte le fantasie aiutano a trovare la forza per poi fare le cose, insomma!
144) RAISA: Ma, vedi, è inutile fantasticare, se poi sai che in ogni caso rimane tutto così.
145) NADIA: Ma, perché è inutile?
146) RAISA: Secondo me sì, perché io voglio vivere, cioè non mi voglio illudere se…
147) NADIA: Ti sembra vita questa?
148) RAISA: Appunto! A me basterebbe rubarla un po’ di vita, capito?
149) NADIA: Rubarla? La fantasia almeno, non ci rimetti niente…
150) RAISA: Non mi serve, non mi serve, davvero, cioè, ti dico, se arrivasse qualcuno, dico, con cui chiacchierare, io non che abbia in mente chissà che cosa, a me basterebbe che mio marito se ne andasse, ti dico, anche solo per un pomeriggio e io potessi parlare realmente con una persona che fosse un po’ persona.
151) NADIA: Non hai amici?
152) RAISA: No, nessuno. Siamo solo io e lui; tra l’altro è un posto desolato, per cui non ci passa nessuno. La chiesa non è più in funzione, lui fa il custode, sperando che prima o poi la riaprano, però non serve più perché non c’é più gente, capisci?
153) NADIA: E il paese più vicino?
154) RAISA: Oh, è lontano, parecchio.
155) NADIA: Sei messa bene (ridendo un po’).
156) RAISA: Eh, decisamente.
157) TERAPEUTA: Mi sembra che il gruppo stia tornando al problema della fuga impossibile, cioè al tema iniziale e cercando di trovare delle soluzioni concrete, forse eludendo il problema che è stato espresso molto chiaramente da lei, quando ha detto: “la solitudine è molto pesante, la solitudine annienta”. Decidere di lasciare una situazione vuol dire essere soli, questo mi sembra ciò che impedisce a lei di lasciare il marito, a lui di mettere in discussione le sue scelte… e credo che sia un problema di solitudine anche quello di porsi in modo attivo rispetto ad una situazione. (pausa lunga)
158) ANNA: Mi sembra chiaro, infatti, che qua ci troviamo tutti soli, per voi due che avete reagito, adesso come la vivete la solitudine? (pausa)
159) NADIA: Ma, per me non è pesante, perché mi sentivo più sola prima, voglio dire, fino a quando ci stavo bene a casa, ma ero tranquilla, perché ero a casa mia, tutta la gente che conoscevo, gli amici, madre, nonna, tutti quanti, insomma. Però, nel momento in cui mi sono accorta di come stavo buttando all’aria tutto quanto, mi sono resa conto che lì, veramente, bisognava fare qualcosa e… mi sono sentita sola per un po’, ma sola nel senso proprio più profondo, senza nessuno che potesse condividere le mie scelte, se non quell’amico di cui ho parlato inizialmente.
160) RAISA: Ma, se non ci fosse stato lui, avresti fatto lo stesso quello che hai fatto?
161) NADIA: Non lo so. Io credo comunque nel destino, perché in fondo ci deve essere qualcuno che ci guida, però devi devi aiutarti anche tu. Non so, forse sbaglio, forse è una visione un po’ fatalista della vita, però, in fondo, qualcosa ci deve essere, non possiamo decidere tutto noi, per non possiamo neanche lasciare che le cose vadano cos senza neanche aver provato a dire: mah!, chissà! Però io mi sento meno sola adesso di prima, perché adesso sono con me stessa, nel senso che quando io devo prendere una decisione, devo scegliere qualcosa, dico. Mah è come se io parlassi con me stessa. Chiaramente non parlo con me stessa, perché non è che ci sono due persone dentro di me, però è come se mi interrogassi su certe situazioni e mi rispondessi, non so se mi…
162) RAISA: Ma tu hai comunque qualcuno da cui andare se qualcosa non funziona.
163) NADIA: No…
164) RAISA: …E i tuoi genitori, dicevi, tutto sommato i rapporti…
165) NADIA: Sì, però con loro non posso fare questi discorsi qua, perché mi prendono per pazza.
166) RAISA: È chiaro, però, per lo meno hai un rifugio, per lo meno materiale, già qualcosa secondo me. Io, se me ne dovessi andare…
167) NADIA: Non lo vedo come un rifugio, perché io, anche se ehm… dovessi…
cioè anche se ci fossero dei problemi nella mia vita, comunque non penso che potrei risolverli a casa.
168) RAISA: È chiaro! Però, nel momento in cui tu senti di avere disperatamente bisogno di un minimo di calore umano, per lo meno sai che a casa qualcuno te lo può dare, che poi ti capiscano o non ti capiscano quello è un altro conto.
169) NADIA: Quello sì.
170) RAISA: Ma, se io me ne vado da lì, a parte che anche lì di calore umano non è che io più di tanto ne abbia, effettivamente, sempre meglio di niente. Dove vado, io sono sola, capito, completamente, per quello che spero che qualcuno arrivi a portarmi via, però o meno sarebbe un inizio.
171) OLGA: Nel momento in cui mi sono separata, i miei genitori non hanno accettato la cosa, dal momento che sono profondamente religiosi. Mi hanno considerato una peccatrice e sono stata rifiutata dalla famiglia per un certo periodo di tempo. Attualmente le cose non stanno proprio così, dal momento che hanno imparato ad accettarmi così come sono. Mi sono ritrovata per strada, però Ehm… mi sono cercata un lavoro, ho messo da parte l’orgoglio e ho incominciato dai lavori più bassi e poi, poco alla volta, sono riuscita a mantenermi da sola. E ho ritrovato la forza di ripresentarmi nella mia famiglia e di far capire qual era il mio punto di vista. Devo dire però che non è stato facile… andare per strada, andare a mangiare alla mensa dei poveri e cose di questo tipo, però, piuttosto che cedere all’orgoglio di andare a casa dei miei genitori e dire: “sì, ho sbagliato, prendetemi tra le vostre braccia”, ho preferito andarmene in giro da sola, quindi, paradossalmente anch’io ero da sola, eppure me ne sono tirata fuori (pausa).
172) TERAPEUTA: Mi sembra che sia importante sottolineare una frase che ha detto lei, su cui possiamo concludere il gruppo, che rappresenta l’altra faccia del maschile, quando dice: “vorrei che qualcuno mi portasse via”, cioè, è l’altra faccia del maschile, nel senso che è il principe azzurro col cavallo bianco.
Seconda Parte. ANALISI QUALITATIVA (F. Di Ciaccia)
- a) Fenomenologia dell’astrattezza del codice morale
La dinamica di gruppo presenta all’inizio il fenomeno del “silenzio”, rilevato dalla stessa terapeuta. Esso non inusuale in incontri del genere, tanto più in quanto i soggetti non si conoscono tra loro. Tuttavia, qui il silenzio manifesta una valenza fenomenologica specifica. Coloro che lo evidenziano sono Anna e il seminarista. Gi in questa rilevazione del “silenzio” – che pure “dà fastidio” a tutti (TERAPEUTA) – sono configurate l’identità esistenziale e l’immagine che di sé i locutori offrono al gruppo. Per Anna, il “silenzio” rimanda espressamente alla frustrazione del suo rapporto con il marito, sottolineata in modo enfatico e violento dalla ripetizione della insopportabilità del silenzio.
ANNA: “non sopporto questo silenzio” (n. 1), “non lo sopporto… non lo sopporto, perché non lo sopporto neanche in casa, […] perché lui no! lui non mi ascolta” (n. 9).
Per il seminarista il “silenzio” rimanda al disagio dell’anonimato: egli ha bisogno di un ruolo, di una funzione (ri)conosciuta.
SEMINARISTA: “se non parlo mi sento scoppiare” (n. 2), “Ho bisogno di sentire cosa siamo venuti a fare” (n. 4), “Non ce la faccio, visto che non ci conosciamo” (n. 6).
Egli pronuncia “esitante” la prima frase, quasi che abbia ritegno a formulare un’asserzione inconfessatamente percepita come eccessiva. Nella seconda frase esalta un’urgenza psicologica (“Ho bisogno”) circa la funzione dell’accadimento posto in essere (l’incontro di gruppo); nella terza pone l’accento sulla mancanza di conoscenza vicendevole.
Ciò fa comprendere che il soggetto è proiettato esistenzialmente verso una configurazione dei rapporti interpersonali tale, che acquista senso solo se caratterizzata da queste componenti:
1) valenza primaria della parola – si ha relazione tra persone, solo se si parla -; 2) necessità di configurare la relazione, di cui sopra;
3) sapere chi si è – il che comporta una certa definizione dei ruoli nella relazione, di cui al punto 1).
L’ultimo punto è rafforzato oggettivamente dall’anomalo particolare: il seminarista è l’unico a identificarsi non già con il proprio nome, ma con la qualifica – come la terapeuta -: quasi importasse non chi egli sia come persona, ma quale professione svolga. Egli poi, anche se esporrà la sua problematica personale, nel gruppo risulta colui che si assume da sé un ruolo di magistero – costitutivo della sua identità -. A differenza degli altri interventi, che appaiono essere di persone alla pari – magari con antagonismo (come tra Vania e Olga) -, che si danno consigli in amicizia (tra Vania e Anna, ecc), quelli del seminarista sembrano di un consigliere istituito.
Esempio I:
(a NADIA): “Ma bisogna scappare allora per fare questo?” (n. 64).
La congiunzione avversativa non è pleonastica (come in molte frasi di questo incontro) né, in congiunzione con l’interrogativo, è di domanda (nel senso di: e “allora”, se le cose stanno così, tu ritieni che, ecc.?), come invece in molti interventi di altri locutori. L’avversativa è realmente di opposizione, a indicare la contrarietà del pronunciarne; l’interrogativo è un’apparente interrogazione, con valore di rimprovero (come a dire: “ma” come ragioni! “Allora”, secondo te, bisogna, ecc). Eppure, egli non chiede neppure un ragguaglio sulla situazione. Ora, dato che l’esperienza della interlocutrice è totalmente estranea alla sua, si deve ritenere che la perentorietà dell’intervento avversativo discende non da una induzione dal reale, ma da una deduzione da principi aprioristici, dogmatici, secondo la tipologia appunto del burocrate dell’etica.
Esempio II:
(a NADIA): “Da dove trai tutta questa fiducia in te stessa?” (n. 72).
Nadia non ha mostrato affatto tanto grande “fiducia” in se stessa: ha esposto la sua scelta coraggiosa, ma ha anche enunciato tentennamenti e molti travagli. Il seminarista se ne è fatta invece l’immagine di una temeraria. Il fatto che egli non abbia colto il dramma di Nadia, è sintomo che egli non mi mette sul piano di lei, ma si tiene chiuso nel proprio punto di vista istituzionale, obbedendo a un codice prestabilito – quello della morale codificata -.
Esempio III:
(ad ANNA): “Perché devi trovare la forza di mollare tutto e andare via da sola” (n. 98).
Anche quando, cambiando completamente posizione, egli sostiene che l’interlocutrice debba andare via dal marito, il suo intervento è un pronunciamento come di chi detta una legge. L’attitudine all’astrattezza da un lato e alla perentorietà supponente dall’altro è tanto più evidente, in quanto il locutore, immediatamente dopo, sostiene tutto il contrario, e cioè che Anna dovrebbe cercare “un avvicinamento” con il marito, facendo un figlio!
Esempio IV:
(ad ANNA): “rispondendo ai discorsi dei ruoli”, ecc. (n. 87).
Nell’intervento, estremamente confuso espositivamente, il parlante prende le difese della figura maschile all’interno della coppia – egli è l’unico maschio adulto, nel gruppo -.
SEMINARISTA: “Sempre questa colpa di mariti, sempre…, vorrei dire… sempre i colpevoli della situazione” (n. 46).
Ma non è tanto significativo ciò, quanto il fatto che egli non si attiene alla situazione in causa: difende il “marito” in base a un principio teorico – la necessità di lavorare, per “mantenere la famiglia” -. La totale astrattezza dell’osservazione – a parte la conclusione critica, ma risultante etica anch’essa: per la famiglia bisogna lavorare di più e così, con “controsenso”, “ci distacchiamo anche dalla famiglia, per mantenerla” – discende dal fatto che Anna non ha mai accennato a necessità economiche! Non si è lamentata che il marito lavori, ma che lavori oltre il necessario. E anche dopo che Anna, contrastando l’ipotesi di Vania, scatta ribellandosi con violenza, il seminarista ribadisce l’idea che Anna aiuti il marito nel lavoro.
VANIA: “Perché non vai a lavorare con lui?” (n. 125) Potresti provare” [a lavorare con lui] (n. 127).
Vania è tutta protesa a salvare l’unità famigliare: il suo problema deriva infatti dal non aver potuto godere dell’affetto dei genitori.
ANNA: “Io odio il suo lavoro…, io odio il suo lavoro” (n. 126), “Io… lo aiuterei ad affondare con il suo lavoro…” (n. 128).
Anna si esaspera, al punto che “sorride”, sembra con feroce sadismo, aggiungendo infatti: “perché c’è il suo lavoro, appunto” (n. 128), intendendo il lavoro come la sfera esistenziale di lui tutta chiusa e solitaria. In effetti ella preferirebbe che il marito almeno “Avesse una donna!” (n. 128).
L’acidità di Anna nei confronti del lavoro del marito è ignorata dal seminarista.
SEMINARISTA: “Pensa ad alleggerire il lavoro che… in cui proprio lui è fissato” (n. 130).
L’influenza della morale volontaristica gli impedisce di capire che il “lavoro”, nella dinamica del marito, non è la causa, ma è l’esito finale del distacco dalla moglie e della sostituzione di interessi. L’astrattezza etica è sfacciata a proposito della questione circa l’ipotesi di una prole.
Esempio V:
(ad ANNA): “Potresti, potresti chiedere un figlio” (n. 104).
ANNA: “Ma no ma no” (n. 105).
(ad ANNA): “Potrebbe essere un riavvicinamento (n. 106).
ANNA “Chiedere un figlio” (inorridita) (n. 107).
(ad ANNA): “Potrebbe essere un riavvicinamento, non dico che sia…” (n. 110). Raisa, complice per un attimo del seminarista, riflettendo sul caso di Vania si avvede dell’assurdità dell’ipotesi avanzata: per una soluzione, più che incerta, improbabile o inattendibile, mettere al mondo un figlio che, di sicuro, soffrirebbe della mancanza di affiatamento tra i genitori!
RAISA (al SEMINARISTA): “Non vorrei che fosse un bimbo come era lui (indica Vania), con un padre completamente assente e una madre che non desidererebbe parlare del padre, magari!” (n. 111).
Il seminarista, tetragono, va avanti con la sua idea. Ma non è tanto in ciò, l’anomalia, quanto nella seguente asserzione.
SEMINARISTA: “Questa volta […] lo sceglierebbero assieme” (n. 112).
Il che, con violenza impressionante, mostra come egli, alienato dalla interlocutrice, non abbia capito niente, e al sussulto di
ANNA: “Cosa?” (n. 113), procede con la regola morale a portata di bocca – cioè, senza pratica di vita -: sforzarsi con la buona volontà di salvare il matrimonio, fare un atto volontaristico – per il codice morale, il solo ambito relazionale, obliterando lo stato affettivo -.
SEMINARISTA (riferendosi ad ANNA): “Si porrebbe più avanti di suo marito, lo aiuterebbe a capire qualcosa di più” (n. 114).
Con un buon senso che rischia l’ovvietà, interviene Vania.
VANIA: “Se i genitori”, ecc, “figurati loro che hanno gi problemi” (n. 115).
Le conseguenze insinuate da Raisa sono di altrettanta evidenza logica.
RAISA: “Poi ci andrebbe di mezzo il bimbo” (n. 116).
Neppure adesso il seminarista recede dai canoni libreschi e perciò non coglie l’osservazione.
SEMINARISTA: “Perché non provi a parlarne? […] a volte basta poco…” (n. 118).
La terapeuta a questo punto taglia corto, proiettando con una battuta un po’ giocosa nel “futuro” -coniugale! – il ruolo (e cercando in questo modo di celarlo) sussunto dal consigliere istituito.
TERAPEUTA: “Mi sembra che il seminarista si stia già calando” ecc. (n. 119).
Nonostante l’intervento tra il faceto e l’indulgente, il seminarista non demorde, tanto è pervaso dalla funzione educatrice. Quasi seccata, Anna reagisce alla presuntuosità, facendogli presente quanto egli sia nesciente.
ANNA: “cosa ne sai? Io…, io…, cosa ne sai? Come? Come? Scusa, ma devo proprio dirtelo…” (n. 121).
Alla narrazione di Anna circa l’egocentrismo di un marito che pensa solo ai “cataloghi” farmaceutici,
il SEMINARISTA (ad ANNA): “Buttali
via, prova!” (n. 122).
Ancora, una proposta astratta dal reale. Uno, che manderebbe a quel paese chiunque si permettesse siffatta cosa, dove farebbe andare la sua disamorata “moglie”?
- b) Convergenza e divergenza di vissuti clericali
Una tipologia di vissuti similari è tra Raisa, figlia di sacrestano e data in moglie, amorevolmente a forza, a un sacrestano, e il seminarista, mandato, con coatta – come si vedrà – unzione religiosa, in seminario. La convergenza emerge dal fatto che egli si inserisce nella conversazione solo dopo un intervento di Raisa. E Raisa è l’unica a sostenere una posizione che fa pensare all’indissolubilità del matrimonio.
RAISA: “Preferirei che [mio marito] uscisse dalla mia vita, pur continuando a rimanere sposati, perché è chiaro, ormai siamo sposati punto e basta” (n. 43).
Il seminarista prende la parola “timidamente”: il che vuoi dire che solo in quel momento riesce a prendere coraggio.
Del resto, oltre Nadia, è solo Raisa a interloquire con lui, quando costui rivela la sua crisi esistenziale. La successione la seguente:
RAISA, che parla di sé (n. 45);
SEMINARISTA, che interviene per la prima volta (n. 46);
NADIA (al SEMINARISTA), che pronuncia solo due lessemi senza contenuto semantico e un pronome personale, che esprime solo stupore (“Pure tu, insomma…”) (n. 47);
ANNA, che, riferendosi al gruppo, non si relaziona con l’individuo seminarista (“siamo proprio messi male”; “siamo tutti incatenati”) (n. 48);
NADIA, che per parla di sé, distinguendosi dagli altri e quindi dal seminarista stesso (“L’unica forte sono stata io”) (n. 49);
VANIA, che parla di sé e trascende la presenza del seminarista (n. 50);
SEMINARISTA, che apparentemente risponde a VANIA, ma che in realtà, esprimendosi con particelle pronominali impersonali, evade dalla problematica di Vania e riporta il discorso alla propria storia (n. 51);
RAISA (al SEMINARISTA) (n. 52);
NADIA (al SEMINARISTA), ricalcando semplicemente il contenuto del discorso del seminarista (“Per non sai ancora” ecc.) (n. 53);
SEMINARISTA (a NADIA, ma soprattutto a RAISA). Raisa ha detto: “Ma non ancora troppo tardi per te”; Nadia: “Però poi non sai quello che vuoi”; il seminarista, con: “Per la preparazione di base che ho ormai”, si riallaccia direttamente a Raisa, anche se con: “assumersi forse una responsabilità più vicina alla realtà”, risponde in parte a Nadia (n. 54);
RAISA (al SEMINARISTA) (n. 55);
SEMINARISTA (a RAISA) (n. 56);
RAISA (al SEMINARISTA) (n. 57);
SEMINARISTA (a RAISA) (n. 58);
RAISA (al SEMINARISTA) (n. 59);
SEMINARISTA (a RAISA) (n. 60).
Qui termina la sequenza in cui è coinvolto il seminarista.
Raisa converge con il seminarista nei presupposti dottrinari. Ella, che ha ammesso l’intrascendibilità dell’atto giuridico, gli ricorda che egli non è “ancora” ineluttabilmente vincolato allo stato clericale.
RAISA: “Ma non è ancora troppo tardi per te” (n. 52).
Raisa usa congiunzioni avversative (“ma”), che tuttavia, spesso, non sono contrappositive, ma esortative.
RAISA: “Ma [non è ancora troppo tardi]” ecc. (n. 52) – il cui senso è: tieni tuttavia presente, ecc. -. “Ma guarda, io ti dico”, ecc. (n. 57) – il cui senso è: ti esorterei a considerare la mia esperienza, ecc. -.
Nel prosieguo, Raisa è la sola ad appoggiare il seminarista, quando costui consiglia Anna di fare un figlio. Raisa ha assorbito il concetto, che guida il seminarista, secondo cui il matrimonio è indissolubile.
RAISA: “si sente più coinvolto” (n. 108 anche se, subito dopo, Raisa, con buon senso e spirito realistico, riflette sulla pericolosità dell’ipotesi avanzata.
RAISA: “Non vorrei mai che fosse un bimbo come era lui [Vania]” (n. 111).
E proprio il fatto che, pur dotata di ragionevolezza, istintivamente è sedotta dall’idea esposta dal seminarista, è segno che ella emotivamente converge verso la posizione mentale del seminarista.
Quanto al seminarista, allorché egli prende la parola la prima volta, fa un discorso di sostegno nei confronti di Raisa sul condizionamento genitoriale. Per alto verso, l’intervento è di opposizione. La sua reazione scatta dopo che Raisa ha indicato l’“ambiente della chiesa” come causa – espressa con la congiunzione causale – di impedimento della soluzione.
RAISA: “sono condannata, […] perché ho sempre vissuto nell’ambiente della chiesa […] e […] mi impedisce di reagire” (n. 45).
La remora è collocata espressamente negli insegnamenti ricevuti senza alternativa.
RAISA: “È l’unico modo che conosco per vivere, seguire gli insegnamenti che mi sono stati dati e stare con l’uomo che e stato scelto per me”, “pur essendo cosciente della situazione tragica, proprio tragica, che sto vivendo” (n. 45).
Il concetto è ripetuto, dopo molto tempo, nel prosieguo, a ribadire che la causa (indicata grammaticalmente da due incombenti congiunzioni causali) della sua immobilità esistenziale è l’indottrinamento imbevuto nella sua diseducazione: il giudizio negativo (dis-educazione) e tradito con disarmante istintività e semplicità dall’autoattribuzione di “stupida”!
RAISA (ad ANNA): “[non vado via], perché sono stupida […], perché sono cresciuta così, bisogna fare così, punto e basta” (n. 138).
– Raisa usa due volte, durante la seduta, l’espressione tassativa (“punto e basta”) a proposito dello stesso contenuto, quasi a rimarcare, con un certo disappunto, la mentalità acritica e dogmatica dell’“ambiente” cui si riferisce -.
Se il seminarista converge con Raisa nel merito specifico del condizionamento genitoriale, tale armonizzazione non va disgiunta dal meccanismo che l’ha sollecitata: anzi, puntare il dito sui “genitori” distoglie dalla denuncia rivolta all’“ambiente della chiesa”.
Questa situazione psicologica è fondativa – credo – del successivo impaccio del seminarista nel comunicare la propria situazione.
- c) Libertà contorta e “paternità” avvolgente
La problematica si incentra intorno al bisogno di autonomia di vita. Le situazioni variano da quelle in cui è già instaurato un vincolo giuridico a quelle in cui le relazioni sono possibilità di scelte. Tra queste ultime si colloca il caso del seminarista; ma con una ambiguità. Per un verso egli si dichiara libero da vincoli “finali” – è “verso la fine”, e non alla fine -: perciò si ritiene equiparato a Nadia; per
altro verso ammette di avere acquisito una struttura mentale assolutizzante, che lo fa sentire già legato: e ciò lo avvicina in qualche modo alle sposate.
Anna indica la condizione del vincolo con una allusione.
ANNA (a NADIA): “io vorrei […], ma […] con il matrimonio, come si fa…” (n. 24).
Nel non detto viene stabilita la differenza, sul piano della realtà giuridicamente obiettiva, tra Nadia – che lo ammette (“chiaramente!”) -, e la propria (e delle altre donne sposate).
Il seminarista manifesta anch’egli un momento sospensivo (“le vostre vite…”); anche questo non detto verte a contrapporre la condizione del locutore a quella altrui. Il vincolo del seminarista è il “vangelo”. Ed è in questo universo immaginifico che si radica l’ambiguità del locutore. A contatto con la vita vissuta della gente, egli vede la religione non più nella astrattezza di valori aprioristici (“la preparazione […], così, sempre teorica”), ma nella dialettica dei problemi reali della umanità (“assumersi forse una responsabilità più vicina alla realtà che distante”). Tuttavia egli si dibatte tra la “crisi […] verso le scelte finali” – diventare prete, fare una scelta di natura giuridica – e il restare nella “responsabilità” di chi “ormai” si sente clericale. In altre parole, il suo orizzonte esistenziale, al momento in cui sta parlando, resta all’interno della dimensione clericale, nel quale i termini alternativi sono: o fare il prete come ruolo ufficiale – obbedendo alle norme fissate e tradizionali -, o fare il missionario del “vangelo” al di fuori delle regole accreditate.
Ciò in cui il seminarista concorda con Nadia e con Raisa, è nell’ammettere il prepotente influsso dei genitori nella scelta di vita, al punto che la casa non appare il luogo disponibile per le confidenze sulle problematiche personali.
NADIA: “sono con me stessa” (n. 161) “con loro [i famigliari] non posso fare questi discorsi qua” (n. 165).
SEMINARISTA (a RAISA): “…e infatti sono venuto qua” (n. 56).
SEMINARISTA: “non ho mai provato ad esprimerglielo, […] non ho parlato, […] non ho mai veramente… raccontato questi miei sentimenti” (n. 60).
Nonostante ciò, egli concorda con Nadia nel considerare la casa come un luogo accogliente.
NADIA: “sono tornata a casa, perché [i miei] mi mancavano un po’” (n. 17).
SEMINARISTA: “e poi… sai che da loro puoi sempre trovare caldo, accoglienza, rispetto” (n. 74), sia pure con un dubbio critico: “dipende forse da quello che fai” (n. 74), – cioè dal fatto che il figlio faccia, o meno, ciò che i genitori vogliono, visto che egli fa quello che vuole suo padre? -.
Che una ragazza, nel momento in cui si trova sola, abbia nostalgia, nonostante tutto, del clima di famiglia, è una debolezza emotiva. Invece il “caldo” della famiglia, asserito dal seminarista, è libresco, un prodotto intellettuale. Poiché egli non vive in famiglia, la famiglia, di fatto, per lui non è altro se non un gruppo umano, unito da vincoli di sangue, in cui egli è benvoluto e rispettato, in quanto ha intrapreso la strada voluta dal padre; ed un gruppo così “accogliente e caloroso”,
così “rispettoso” dei bisogni di ciascuno, che egli non ha neppure il coraggio di dire al padre di non essere tanto sicuro di voler fare il prete! Ci si chiede che amoroso rispetto sia quello che si può “sempre trovare” in famiglia, e in base a quale esperienza egli ne parli!
C’è poi un sorprendente accostamento tra due preterizioni: quella di Anna, sposata, e quella del seminarista. Anna, prima di rifugiarsi nell’espressione tipica del gruppo (“andare”), indicante autonomia e libertà, si lascia sfuggire un verbo – con l’ausiliare al condizionale potenziale e ottativo – privo del suo complemento oggetto.
ANNA: “vorrei avere…” (n. 24).
Che cosa ella vorrebbe “avere”? Non lo dice. Il seminarista accosta la propria situazione a quella di uno non libero – come sposato -: “ormai”! -; per non lo dice.
SEMINARISTA: “ormai no, sono verso la fine” (n. 46).
Nell’imbarazzo, sembra intendere il contrario di quello che vorrebbe dire ma che non dice. Infatti, si sta “preparando a diventare… prete… prete…, per, ormai no”. Ma, avendo dichiarato di essere stato indotto da altri a farsi prete, qui si capirebbe che egli stia per concludere indicando un’intenzione contraria a quella imposta, dato che usa l’avversativa (“però”): “mi sto preparando a […], però”. La negazione perentoria (“ormai no”) sembra sottendere l’opposto del “farsi prete” – cioè: ormai no, non mi ci preparo più -. Invece, egli vuole dire, senza dirlo, che “ormai” non può tornare indietro (“ormai no, sono verso la fine”), per poi, con una congiunzione contrappositiva (“ma”), ritornare all’enunciazione delle sue perplessità (“non sono del tutto convinto di questa scelta”).
Un ulteriore parallelo dell’avverbio temporale (“ormai”) va notato in convergenza con l’uso che ne fa Raisa, che con quell’avverbio esprime la ineluttabilità del matrimonio.
RAISA: “ormai siamo sposati punto e basta” (n. 43).
- d) La divorante incertitudine
In una conversazione tra persone in crisi esistenziale, tutte quante prive, per di più, di basi culturali teoretiche o professionali in campo psicologico, non fa meraviglia che abbondino avverbi dubitativi e forme verbali pleonastiche di possibilità. Nadia, per un aspetto la più determinata, ne fa uso in un intervento, per esprimere una ragionevole prudenza al riguardo di un giudizio su se stessa. Anche Anna è parca, se si considera la sua marcata perplessità e se la si relaziona agli altri, di lessemi dubitativi: vi ricorre quanto basta per porre al vaglio autocritico se stessa.
NADIA: “Non so, forse sbaglio, forse è una visione”.
ANNA: “Sono scontenta forse” “Probabilmente sono egoista” “potrei… forse mi sentirei più come più… ehm…” – in cui l’incertezza, rafforzata dalle sospensioni, discende dalla dichiarazione che ella preferirebbe che il marito si fosse innamorato di un’altra donna, invece che del lavoro! -.
Sofia interviene poco, ma va al fondo della questione esistenziale: “capire che cosa è che conta” al di là della contingente felicità o infelicità. Di Nadia dice che ha raggiunto una certa tranquillità, “perché hai capito – così le si rivolge – che cosa è che volevi”. Perciò Sofia, dialettizzando il concetto dell’“essere felici”, per prudenza non si sente di pronunciarsi apoditticamente sul vissuto altrui.
SOFIA (a NADIA): “Forse per quello che magari tu dici: “sono felice”, e io magari dico: “non sono felice”, proprio perché forse”;
(ad ANNA): “forse anche lei o l’altra… [Nadia e Raisa] dicevano appunto che non vedono” ecc.
Vania ricorre a forme dubitative in casi in cui ipotizza situazioni che non ha vissuto – “non ho avuto una famiglia” – e su cui quindi non può formulare opinioni tassative.
VANIA: “poi, magari, chissà, pentirsene” “Scappare forse non vuoi dire andare via” “forse se ci fosse stata qui mia madre”.
In quest’ultimo caso l’espressione dubitativa è obbligata, essendo sua madre ormai morta.
Olga, che mostra un’attenzione particolare alla problematica teorica del fenomeno del condizionamento – è la società a stabilire i ruoli nel privato – e una problematizzazione dialettica circa il proprio rapporto coniugale, rivelando anche un senso di profonda autocritica, propone la propria filosofia ed enuncia le responsabilità individuali con cautela.
OLGA: “Forse… io penso che noi siamo ancora vittime” (il cui il senso è: forse è vero che, come io penso, ecc.) – “e forse nel mondo esistono uomini non così presi” ecc. – in cui l’esistenza o meno di maschi, che non siano immersi soltanto nel lavoro, è enunciata come evenienza possibile – “per vedere se forse il problema [del naufragio coniugale] non era il mio […]” “forse ero io quella che non lasciava aperte le porte” “non esprimo sentimenti, forse non lo facevo neanche con lui…” – cercando di smussare le proprie responsabilità, ma dubitando tuttavia se fosse stata sufficientemente espansiva – “E poi, forse, si vedrà se ritornare con lui” – indicando una possibilità, che non si può sapere se accadrà -.
Raisa ricorre più spesso a forme verbali di incertezza. Esse sono fondate, quando si riferiscono o ad un passato in cui le scelte compiute non appaiono chiare neppure al presente, o ad immaginazioni circa un’evenienza incerta che riguardi se stessa, o ad una ipotesi che riguardi altri, di cui il locutore non può sapere come stiano di fatto le cose, o ad una fantasticheria sul mondo fisico.
RAISA: “Probabilmente perché pensavo forse che avrei fatto la stessa vita che facevo con mio padre” “e adesso mi rendo conto che probabilmente se lui stesso [il padre] fosse qui, non sarebbe felice della vita che faccio” (riferendosi ad ANNA): “Forse lei si è accorta che non lo [il marito] amava più” (ad ANNA): “non pensi magari che […]. Non è magari […]” “Probabilmente non farei più tornare il sole”.
Altre volte la formula di incertezza sembra esprimere una posizione critica; in realtà tende a sminuire la responsabilità dell’“ambiente”: “io probabilmente sono condannata, se vogliamo” (una proposizione con valore dubitativo) “forse…, forse… l’”ambiente” “poi non lo faccio [lasciare il marito], […] probabilmente, perché sono cresciuta così”.
Il seminarista fa uso di lessemi dubitativi più di ogni altro: non molto di meno di tutti gli altri messi insieme. A volte tali lessemi sono cautelativi; altre volte, ingiustificati.
SEMINARISTA: “[i genitori] potrebbero influire” (nel senso di: “forse influiscono”) “e invece forse ho fatto la scelta che ha voluto” ecc, “forse [il padre] non è una vera guida” – le formulazioni possibilistiche e dubitative possono sembrare critiche, ma in realtà servono a diminuire la cattiva impressione, dato che il locutore dichiara di essere stato decisamente influenzato dai genitori e dato che, inoltre, sta ascoltando racconti di dichiarato condizionamento – forse perché mi rendo conto” – l’avverbio dubitativo serve a celare la propria verità, poiché il locutore sa, come poi dichiarerà, di essere in crisi circa la propria permanenza in seminario -. La stessa osservazione vale per le frasi seguenti: “ti rendi conto troppo tardi che forse hai sbagliato” “mi fa sentire che forse è tutt’altra cosa, il Vangelo” forse vado avanti” [per far piacere a mio padre] “Forse non ho mai provato ad esprimerglielo, forse non ho parlato, forse non ho mai veramente… raccontato” – in cui ci si chiede come egli possa ignorare se abbia parlato, o no – “forse i genitori servono per indirizzare”.
Nei suoi consigli ad Anna, le forme ipotetico-dubitative sono fondate sul fatto che il locutore non ha esperienza delle dinamiche tra coniugi e dell’esigenza che egli ha di farsi un’idea di questo universo ancora sconosciuto, come egli stesso ammette alla TERAPEUTA: “Devo prendere coscienza di quello che dovrò fare”. Ma la contraddizione consiste in ciò: da un lato, nella caparbietà di voler consigliare e, dall’altro, nel non dire nulla di delineato.
(ad ANNA): “Anche lui [il marito] forse si lamenta”
(ad ANNA): “Forse è un modo [del marito] di difendersi da te”
(ad ANNA): “probabilmente anche noi”
(ad ANNA): “Potresti, potresti chiedere un figlio”
(ad ANNA): “Potrebbe essere un riavvicinamento”
(ad ANNA): “Potrebbe essere veramente qualcosa che… forse non ci hai mai pensato”.
In definitiva, egli mostra non di volere imparare; ma ad ogni costo di consigliare, magari a sproposito, con l’atteggiamento paternalistico e supponente di tipo clericale; altrimenti si esprimerebbe in altro modo, come ad esempio: “Dimmi un po’: non è, per caso, un modo di tuo marito, ecc.?”; “Magari non sarebbe di aiuto chiedere un figlio? Che te ne pare?”; “Cosa ne dici: non pensi che potrebbe essere magari ecc.?”.
- e) Condizionamento e immedesimazione
Il fenomeno del condizionamento da parte dei genitori ad uno stato di vita o alla scelta di un partner risulta più marcato nei casi in cui lo stato di vita è concepito come giuridicamente e moralmente irrevocabile: per Raisa, quello coniugale; per il seminarista, quello clericale.
Raisa è l’unica coniugata ad esplicitare la mancanza d’amore verso la persona che ha sposato, evidenziando una dipendenza assoluta dal padre circa la concezione sia dell’essenza del contratto coniugale, sia della sua astratta doverosità.
RAISA: “sposati […] senza amore, perché bisognava sposarsi” (n. 12) “era da fare [il matrimonio]” (n. 12).
Sia la scelta dello stato di vita, sia il partner con cui vivere, avvengono per volontà, più che per consiglio, del genitore. “Mio padre ha voluto” ecc. (n. 12), “[Mia madre (mi ha detto)] stai lì e sposati con lui” (qui è usato il discorso indiretto libero) (n. 12), “io ho seguito il volere di mio padre” (n. 57).
La conseguenza è la totale estraneità affettiva tra i componenti della coppia. Confrontando la propria situazione con quella di Anna.
RAISA: “con mio marito non ho assolutamente nulla in comune” (n. 8) “[non c’è] proprio nessun genere di affinità” (n. 12), “Io con mio marito non ho niente da spartire” (n. 43) – con ripetizioni del pronome negativo, rafforzato, in una frase, dall’avverbio assoluto –
(ad ANNA): “sono condannata a stare con una persona… di cui non mi importa niente” (n. 136).
Anche Anna è arresa di fronte allo stato matrimoniale.
ANNA (a Nadia): “con il matrimonio, come si fa…” [a lasciare il marito] (n. 24)
(a RAISA): “non riesco neanche a dire ciao” – a lasciare il marito -, “[a dire] chiudiamo tutto qui, basta!” (n. 92)
(a SOFIA): “mi sento un po’ un topo in gabbia…”(n. 97).
Tuttavia in lei influisce non la configurazione della indissolubilità del matrimonio, giuridica, dottrinaria e preconcetta, ma l’esperienza esistenziale della precedente intesa affettiva con il partner: “col tempo […] ci siamo abbastanza allontanati” (n. 11), “quando ci siamo sposati era una cosa – c’era un amore – normale, poi […] non so che cosa sia successo, […] voglio semplicemente riprendere ad esistere con lui” (n. 83), “vorrei… tornare a divertirmi con lui” (n. 88).
e alla precisazione di RAISA: “Ma con lui, per…” (n. 89),
ANNA (a RAISA): “Sì, con lui” (n. 90) ancora ANNA: “se lui si accorgesse di me, io sarei contenta” (n. 92)
(a RAISA): “se non ridere, almeno piangere con lui, incominciare…” (n. 135).
Quanto al seminarista, parlando del condizionamento egli usa – e per due volte – l’avverbio “troppo”. Ciò è indice, per un verso, che egli è più reattivo di quanto faccia ritenere il suo contengo controllato; per altro verso, che teme un giudizio negativo da parte degli altri, cercando, in parallelo, di ridurre il pericolo di scandalo negli altri. Si noti infatti come egli trapassi gradualmente, man mano che prende confidenza con il gruppo, da semantemi addolciti (“influire”) ad altri sempre più inequivocabili: “condizionare” e, soprattutto, “volere”, un verbo usato anche da Raisa, a indicare la prevaricazione paterna. Inoltre, inizialmente egli usa il condizionale, attenuato dall’avverbio dubitativo, come per eludere colpevolezze precise; poi l’indicativo, che esprime la fattualità, però nella forma verbale passiva, come a sottolineare che egli ha subito l’azione paterna; infine l’indicativo attivo, con ammissione della propria responsabilità.
SEMINARISTA: “potrebbero influire forse troppo i genitori” (n. 46), “sono stato troppo condizionato dai genitori” (n. 46), “ho fatto la scelta che ha voluto mio padre” (n. 46).
L’ultima frase è seguita da un aggiustamento di tiro: “per fare contento lui”. Ciò rivela un disagio del locutore non appena proncunciata la verità nuda e cruda. Il seminarista inoltre è l’unico che ricorre a termini di condiscendenza riguardo all’imposizione parentale. Neppure Raisa, pur educata secondo la logica clericale, ha parole che indichino il piacere di gratificare l’oppressore.
SEMINARISTA: “per far contento lui” (n. 46), “vado avanti per il piacere che ha mio padre” (n. 58).
Ciò fa ritenere che il padre sia non già autoritario – come la madre di Nadia -, ma accattivante e che condizioni il figlio non con imperiosità e durezza, ma con bontà – secondo la prassi chiesastica -, facendo leva sui sentimenti buoni del figlio, condiscendente e amorevole.
Nel quadro del condizionamento subito, coloro che concepiscono lo stato di vita come una condizione immodificabile sono anche coloro che si immedesimano con il prevaricatore. Non si tratta di identificazione con la figura genitoriale, ma, più semplicemente, di considerare il genitore come apprezzabile e imitabile. Lasciarsi condizionare da qualcuno e nutrire stima per lui sono in proporzione diretta.
RAISA: “la stessa vita che facevo con mio padre” (n. 14), “mio padre era una persona molto speciale” (n. 14), “perché era la persona più importante” (n. 57).
SEMINARISTA: “[Condizionato dai genitori] nel seguire quello che ha fatto mio padre” (n. 46): e sta parlando di fare il prete.
L’asserzione non è strana, se si tien conto che nella chiesa ortodossa, in cui si inscrive il dialogo tratto da Cechov, i preti non hanno l’obbligo del celibato. E allora assume maggiore incisività la correlazione tra Raisa e il seminarista. Anche il padre di Raisa vuole tramandare alla prole – in questo caso attraverso il genero – la propria esperienza.
RAISA: “ha voluto che sposassi lui [il sacrestano], perché sacrestano pure mio padre” (n. 12).
Anche per Nadia lo stato di vita era una scelta dovuta, come del resto per Raisa e per il seminarista.
NADIA: “dovevo sposarmi con un ragazzo” (n. 15).
Anch’ella rivela che tra condizionamento e immedesimazione c’è uno stretto rapporto, ma lo conferma, per contrasto. Il superamento di questo rapporto è dato dal distacco, che si riverbera, sul piano locutorio, nei tempi verbali al passato.
NADIA: “mia madre io la consideravo una persona speciale” (n. 21), “prima per me era un mito, un idolo, una persona da imitare in tutto e per tutto” (n. 21) – si noti l’identica aggettivazione (“speciale”) usata da Raisa per il padre, e anche il livello di stima sostanzialmente coincidente con quello espresso da Raisa attraverso la particella superlativa (“molto”) -, “però quando ho deciso di andare via, lei è cambiata nella mia mente, la vedevo un po’ più volubile, più superficiale”, ecc. (n. 21), “poi mi è crollata” [l’immagine del mito] (n. 21).
Il distacco genera una evoluzione in positivo – nel senso del rispetto della autonomia dei figli -:
NADIA: “c’è un certo cambiamento positivo” – nell’essere considerati dai genitori come persone con una propria testa – (n. 75).
L’allontanamento emotivo arriva alla sostanza stessa dell’esempio offerto dalla persona condizionante:
NADIA: “per lei era normale sposare un uomo senza amarlo, lei ha sposato mio padre senza esserne innamorata” (n. 63).
A questo punto è la stessa locutrice a stabilire il confronto con il seminarista.
NADIA (al SEMINARISTA): “e se io avessi fatto come ha fatto lei […], come tu vorresti fare con tuo padre”, ecc. (n. 63), “tu non puoi essere la fotocopia […], tu sei una persona diversa e devi ragionare con la tua testa” (n. 67).
Nadia mostra come occorra spezzare la catena della imitazione. Oltre ciò ella non procede; ma sottende una somiglianza, pur non acclarata, tra la propria mancanza di amore (per l’uomo scelto da altri) e la (eventuale) mancanza di amore del seminarista per la vita clericale. Ed infatti Nadia insiste, con una decisa e duplice avversativa – retorica e non erronea -, sostenendo la via dell’allontanamento materiale dall’“ambiente” condizionante.
SEMINARISTA (a NADIA): “Vivere nello stesso ambiente” ecc. (n. 66).
NADIA (al SEMINARISTA): “Ma certe volte però è l’unica via d’uscita” (n. 67).
Anche Nadia rivela un dinamismo di immedesimazione: ma non con i genitori. Ella, che, come Olga, ha cercato con concretezza di affrancarsi dalla schiavitù imposta dagli altri, ha preso come esemplare un “amico”, che gli ha fatto “cambiare la vita”.
NADIA: “ho conosciuto una persona molto importante per me” (n. 15), “io ho avuto una persona molto importante nella mia vita” (n. 27) – in cui si noti la differenza dell’aggettivazione usata da Raisa e da Nadia stessa riguardo al proprio rispettivo genitore: “molto speciale”! -.
Olga, la più determinata nelle sue scelte, subisce anch’ella strascichi di condizionamento, derivanti però dalla “società” e indicati con un condizionale potenziale.
OLGA: “nonostante i problemi che ci potrebbero essere di fronte alla società che può… contestare queste decisioni” [di separarsi dal marito] (n. 44), “siamo ancora vittime di una società” ecc. (n. 80).
Ma soprattutto Olga è colei che dimostra come attraverso la rottura spietata e totale con l’ambiente condizionante ci si libera dal rapporto di immedesimazione con i soggetti prevaricanti.
OLGA: “Mi hanno [i genitori] considerata una peccatrice e sono stata rifiutata dalla famiglia” (n. 171) “hanno imparato ad accettarmi” (n. 171).
Ciò che dunque emerge nel gruppo, a proposito di condizionamento e immedesimazione, è:
1) la contiguità di convivenza coi genitori genera alienazione dell’io dalle proprie esigenze personali, per cui occorre guardarsene, come dice Nadia al seminarista;
2) da tale contiguità occorre guardarsene in maniera più guardinga che mai, perché la riproduzione dell’identico inseguita soprattutto dai genitori, in quanto essi ambiscono a sopravvivere nei figli, come in particolare è segna-lato da Raisa e dal seminarista;
3) il superamento della contiguità è facilitato da un estraneo al gruppo conti-guo – anche il seminarista non parla della propria crisi né in casa né in seminario -. Il passaggio dalla conti-guità alla autonomia, che fa nascere e crescere la personalità – l’autoidentità -, è trasparente nelle frasi di Nadia e soprattutto nell’ultimo intervento di Olga. Si noti poi che soltanto Nadia, definendo “importante” la persona in questione – e dichiaratamente non sul piano sentimentale ed erotico -, aggiunge il complemento etico con pronome personale o di tempo con aggettivo possessivo:
NADIA: “per me”, “nella mia vita”.
Raisa invece, che pure sembra avere avuto tanta stima per suo padre, ne vede l’importanza nel sociale, avulsa dalla propria vita intima. Anche il seminarista, per il quale la vita da “prete” dovrebbe, in teoria, costituire una dimensione intimamente personale, non enuncia mai una parola che faccia riferimento al valore soggettivo, per lui, della sua adesione alla persona condizionante: in altri termini, non si esprime mai in modo tale, da far ritenere che la “scelta di fare il prete” interessi lui e non invece solo suo padre.
- f) Incatenamento ed evasione
L’evasione dalla realtà si qualifica differentemente a seconda di come è vissuto lo stato di vita attuale.
Partiamo dalla terminologia usata per significare la mancanza di libertà e la caratteristica fenomenologica con cui essa è vissuta.
Nadia, che ancora va e viene tra la casa dei suoi e la sua, usa verbi di movimento (“scappare”, “tornare”, “andar via”) e qualifica i legami con una metafora il cui significato in senso proprio vale per l’animale da catturare, perché non raggiunga più la propria tana – la propria identità, in senso esistenziale -: “trappola”. Quindi ella “odia” chi la “cattura”. Solo una volta parla di “solitudine” (infatti ha trovato un “amico”).
NADIA: “questa trappola”, “sono scappata, […] sono anche tornata”, “sono tornata a casa”, “mi sono sentita sola […] sola”, “li odio, li odio [i famigliari]”.
Anna si esprime con l’immagine del “blocco”, delle “catene” e della “gabbia”, ma fa anche uso di vocaboli esistenziali ed emotivi: “infelicità”, “noia”, “solitudine”, “odio”, “scontentezza”, con ripetizioni significative.
A proposito del sentimento di odio, lo esprimono soltanto Nadia e Anna: Nadia, perché spinta a sposare un uomo senza amarlo – e l’odio è concretizzato dalla voglia di “prenderla [la madre] e buttarla fuori dalla porta”, quando la madre le dice che “capita a tutti” di sposarsi senza amore -; Anna, perché vede il lavoro del marito come l’antagonista che le sottrae l’amore del marito. Nell’una e nell’altra, l’odio si rapporta all’amore imposto come assente.
Anche altre persone del gruppo soffrono l’assenza dell’amore; ma la situazione di Nadia e di Anna, in rapporto a ciò, è diversa: Nadia e Anna reagiscono con violenza, perché si raffigurano l’amore come possibilità reale – Nadia, per un qualche eventuale uomo; Anna, con il marito stesso -. E siccome l’odio è aggressione contro qualcosa per amore di altro, esse odiano ciò che sottrae loro l’amore, poiché cercano l’alternativa opposta.
In Anna si aggiunge il senso di impotenza a mutare la situazione: e con ci si spiegano i sostantivi indicanti stasi blocco”), legamento (“incatenati”) e chiusura (“gabbia”).
ANNA: “sono infelice”, “non esisto quasi più”, “ho un blocco”, .”siamo tutti incatenati”, “E noia!… noia, solitudine”, “non riesco a sopportare la solitudine”, “ho paura della solitudine”, “Io odio il suo [del marito] lavoro…, io odio il suo lavoro”, “sono scontenta, […] sono scontenta”, “mi sento un po’ un topo in gabbia”.
Raisa, pur vivendo “infelicemente”, non sprigiona odio, perché non conosce una reale alternativa. La situazione attuale è considerata un inganno, un raggiro fraudolento (“incastrare”), perpetrato ai suoi danni dalle circostanze – villaggio isolato e “desolato”, dove “non passa nessuno”, ecc. -. Perciò si sente “condannata” a un carcere, in cui langue (“ritorno a spegnermi”): con sentenza inappellabile (“senza speranza”).
RAISA: “infelicemente”, “solitudine […] senza speranza”, “sono condannata”, “anche tu sei incastrata”, “io sono condannata”, “io mi condanno da sola”, “io ritorno a spegnermi”.
Vania non ha astio né conflitti: “Paradossalmente non ho avuto problemi con nessuno”; ma neppure alternative: gli è morta la madre e non ha conosciuto il padre. La fissità storica è denunciata quando egli non solo vede al presente la solitudine – il che è ovvio, data la situazione perdurante -, ma anche al futuro, in una dimensione di intrascendibilità – in rapporto naturalmente non ai genitori, che non può avere, ormai, ma alla gente in generale -.
VANIA: “solitudine […] così profonda”, “così inevitabile, che quasi adesso mi sembra inevitabile, mi sembra quasi l’unica” (possibile).
Olga sottolinea l’aspetto della vita consociata: i problemi sono soggettivi, ma hanno una base nel costume sociale, nella mentalità generale (“società”, “status”, “imposizioni culturali”). Se è lei a qualificare “brutta” la solitudine e ad esprimersi più tragicamente, è perché l’“essere soli” è inscritto in un contesto oggettivo più globale.
OLGA: “vittime di una società che stabilisce dei ruoli”, “condizionate da uno status, da imposizioni […] culturali”, “la solitudine è brutta”; “l’essere soli è un annientamento”.
Le forme di liberazione dall’ingranaggio sono relative al modo in cui è vissuta l’infelicità presente.
Nadia, pur con qualche nostalgia, “andata via”. Parlando di sé, usa di frequente il pronome personale – anche escludendo l’intervento con cui si presenta -, soprattutto quando indica azioni decisionali. Il suo lessico esalta la determinazione volitiva. Il modo dei verbi è in genere l’indicativo, che esprime l’effettuale (al riguardo non offro un ragguaglio analitico, perché il dato è molto evidente).
NADIA: “Io sono riuscita” ecc, “quello che ho fatto io andando” ecc, “Io ho bisogno di andare” ecc, “di pensare e di agire come volevo io”, “io la consideravo” ecc, “Ma io ho avuto una persona” ecc, “Io l’ho fatto” ecc, “Io ho detto che non volevo” ecc, “se io avessi fatto come”, ecc, “io adesso […] mi sento triste per quello che ho fatto”, “io potevo anche sbagliare”, “io voglio molto bene” ecc, “Io quando sono tornata”, “perché io ero diversa”, “il fatto che io fossi andata via”, “Ma io lo trovo l’affetto in loro”, “Io credo comunque nel destino”, “io mi sento meno sola”, “quando io devo prendere una decisione, devo” ecc, “come se io parlassi con me stessa”, “perché io […] non penso che potrei”, ecc.
espressioni di dipendenza:
“sono tornata” (in casa della madre)
“mi mancavano un po’”
“tornata di nuovo”
“mi sono sentita in colpa”
“mi ha fatto soffrire”;
espressioni di rifiuto:
“scappare”
“mandare all’aria”
“sono andata via”
“ho lasciato tutto”
“in un’altra città”
“non [riuscivo più a] sopportare”
“[bisognava] cambiare”
“rovesciare”
“cambiare”
“andando via”
“sono andata” (via)
“in un’altra città”
“sono via”
“di andare via, di essere libera”
“andare via”;
espressioni di autonomia:
“invece ho deciso”
“mi sono resa conto”
“la propria vita”
“mi sono resa conto”
“non era più il posto”
“libera […] come volevo”
“mi rendo conto”
“ho deciso [di andare via]”.
Quanto ad Anna, la sua forma di superamento è in un reale possibile ma improbabile. Combattuta tra il possibile ma, sia per l’incapacità di farsi ascoltare dal marito (“Io… io non riesco”), sia perché il marito non la “ascolta” proprio, l’insperabile, abbonda in verbi potenziali e ottativi.
La sua tensione frustrata – il desiderio dell’obiettivo disperato – è esaltata dal fatto che sul piano razionale ella ha le idee chiare su ciò che vuole. E in questo caso ella si esprime con il massimo della decisionalità: dal punto di vista grammaticale, pronome personale di prima persona, modo indicativo, tempo presente; dal punto di vista semantico, lessemi indicanti “sapere” e “volere”.
ANNA: “Ma io so quello che voglio!”, “Io so dov’è il mio problema”, “Io ho bisogno [di una persona accanto]”, “io voglio venir fuori [dal problema]”.
Ed è proprio la divaricazione tra la determinazione volitiva da un lato e l’uso, dall’altro, dei condizionali potenziali e dei congiuntivi ottativi, quando intenziona l’obiettivo da perseguire, a dimostrare che ella si rifugia in una chimera, in una possibilità non raggiungibile.
Tempi potenziali e ottativi (escluse le apodosi delle ipotetiche):
“vorrei avere” (e non dice neppure che cosa)
“quello che vorrei [ proprio un dialogo]”
“vorrei tanto avere [già un punto di riferimento]”
“non vorrei… ehm…”
“a volte vorrei anche piangere”, ma appunto non ci si riesce
“vorrei urlare certe volte”
“vorrei che lui”
“quello che uno vorrebbe…”
“se lui si accorgesse di me” (nel senso di: “vorrei” che), “sarei contenta” “vorrei reagire”
“perché vorrei reagire”
“lo aiuterei [ad affondare con il suo lavoro]” – l’obiettivo è il medesimo: uccidere l’antagonista, per far rivivere con lei il marito –
“Avesse [il marito] una donna!” “vorrei… […] almeno piangere con lui”.
Quanto a Raisa, ella reagisce alla condizione attuale con una fuga nell’immaginifico, nel “sogno”. Anche Raisa usa il condizionale “vorrei” – soltanto dopo, però, che ne ha fatto un bombardamento Anna -; ma il suo sintagma è il “sogno”, Per converso, anche Anna, parla di “sogno”, rispondendo proprio a Raisa – ma il termine è già usato da Raisa nel formulare la domanda: “Non è che sogni un altro uomo” – e anch’ella conferma di “fantasticare altri incontri”. Ma, come ho mostrato sopra, non è questa la sua specificità, tanto che ella riconduce subito il discorso alla sostanza della propria progettualità: “ma… se lui si accorgesse di me, io sarei contenta, non cerco necessariamente qualcun altro”.
Raisa, invece, cerca necessariamente qualcun altro! Ed è significativo che sia stata ella a chiedere se Anna “sogni”.
RAISA: “è fatto [il mio mondo] di sogni sostanzialmente”, “vedo [in ogni persona] il principe azzurro”, “l’unica mia via di uscita sono i sogni”, “provocare il maltempo per fare entrare qualcuno” (è una “accusa” del marito, che sa del sogno della moglie), “vorrei andar via con lui” (con chicchessia, che varchi la porta), “a me basta uno sguardo di un altro uomo”, “aspettando che si riapra di nuovo [la porta]”.
Quello che è chiaro, è quale sia il “sogno”: vivere un momento di affettività con qualcuno, chiunque egli sia, “bello o brutto che sia” – come ella precisa -. Fino a questo punto, il “sogno” ha un obiettivo concreto e, per quanto molto raro, realizzabile. Parlando di esso, la locutrice usa il modo indicativo – ovviamente, salvo il caso in cui ipotizza, come mezzo per raggiungere il “sogno”, un impossibile influsso, metereologico: “non farei più tornare il sole” (perché si realizzi il sogno) -.
Il modo verbale del “sogno” concreto:
“è fatto [di sogni]”
“vedo [il principe azzurro]”
“sono [i sogni]”
“di provocare [il maltempo] (= che io provoco) – il verbo infinito, trasformato in finito, è un indicativo presente, poiché dipende da una principale all’indicativo presente (“mio marito mi accusa”). La stessa considerazione per la frase successiva: trasformato il modo infinito in finito, avrebbe il congiuntivo (obbligato, per il valore finale) presente, il quale, nelle proposizioni finali, indica un fine reale. Il che rientra nella tesi succitata, addirittura con trasferimento al marito del pensiero che l’interessata sostiene e vive -.
“Per fare [entrare qualcuno]”
“basta [uno sguardo]”
“si riapra [di nuovo la porta]”.
Un’altra dimensione del “sogno” è invece contraddittoria: da una parta resta salda l’idea del contratto irrevocabile, dall’altra insorge un desiderio di allontanamento materiale dalla casa, che ella – così a Vania – “non […] sento più casa mia”, e dal marito, che è la causa del suo estraneamente affettivo (“a me basta che ci sia lui in giro, per… per sentirmi estranea a tutto”). Parlando di questo “sogno” impossibile, la locutrice usa il modo condizionale e congiuntivo.
Il modo del “sogno” impossibile
“preferirei [non mi vedesse]”
“preferirei [uscisse]”
“preferirei [mi ignorasse]”
“potrebbe [il principe]”
“vorrei scappare”
“vorrei andare via”
“se arrivasse qualcuno”
“a me basterebbe che mio marito se ne andasse”
“e io potessi parlare realmente”
“una persona che fosse un po’ persona”
“Io se me ne dovessi andare”.
La dimensione ipotetica ha dunque due facce: quella della realtà, per quanto riguarda la pulsione – la locutrice vuole concretamente qualcosa -, e della irrealtà, per quanto riguarda la realizzazione – ella confessa: “poi non lo faccio” -. È per tale motivo che ne deriva il modo verbale della possibilità. Se ella non ritenesse possibile il sogno neppure immaginificamente, avrebbe usato non il congiuntivo imperfetto, ma il congiuntivo piuccheperfetto (avrei preferito; avrebbe potuto, avrei voluto, ecc).
La pulsione realistica è addirittura decretata chiaramente in un intervento alla fine, rispondendo a Nadia, quando è usato persino l’indicativo presente in tutto l’intero periodo sintattico:
“Ma se io me ne vado […], dove vado [?] […], spero che qualcuno arrivi a portarmi via”.
Da qui, la contraddittorietà di Raisa: vive di “sogno”, per non intende “fantasticare”, come invece le consiglia Nadia. Ella sogna non di andarsene, ma di essere portava via – il “principe azzurro” che “arrivi a portarmi via” -. Dunque, non può metterci nulla di suo: non può neppure abbandonarsi alla immaginazione, che è un’operazione della fantasia compiuta con volontà e deliberato consenso (su cui, in morale, si fonda l’atto responsabile). Perciò ella considera l’”andar via” come un furto:
(a NADIA): “A me basterebbe rubarla un po’ di vita, capito?”.
Da qui, la incomprensione profonda tra Nadia e Raisa, che esaminerò dopo. Una conflittualità emerge anche tra Raisa e Vania, come tra Vania e Olga, che esaminerò in un secondo momento.
Per ora consideriamo la forma di liberazione di Vania. La sua è molto semplice: quella di un immaginifico realistico e possibile ma non sperimentato, in cui anche il condizionamento genitoriale, proprio perché non “avuto”, è visto in positivo.
VANIA: “sarebbe bello poter seguire un genitore”, “sentire di avere qualcuno che ti condiziona”.
Quanto ad Olga, la sua soluzione è la scelta di solitudine funzionale, metodologica: per “crescere”.
OLGA: “voglio bastare a me stessa”, “sto combattendo per essere autonoma”, “adesso mi nascondo”, “non manifesto più a nessuno”, “le mie emozioni sono sole mie” “barricarmi”, “un’estranea per tutti”, “bisogna avere il coraggio di essere autonomi e indipendenti”, “essere soli […] aiuta a… a ripartire”.
Il suo orizzonte mentale è la concretezza. Si consideri il suo lessico, i modi e i tempi verbali, tutti all’indicativo: o al presente, o al presente continuativo, o al passato prossimo.
OLGA: “Io non sono d’accordo”, “io l’ho lasciato e […] vivo da sola”, “sto molto bene” “voglio bastare”, “sto combattendo”, “io ho reagito”, “prima ho manifestato troppo [i miei sentimenti]”, “adesso mi nascondo, […] non manifesto”, “quello che io provo, che sento”, “[le mie emozioni] sono solo mie”, “vivere con una persona che non è in grado […] non è stato sufficiente”, “preferisco [barricarmi]”, “di essere – nel modo finito: “che sono” – un’estranea”, “piuttosto che affrontare” – nel modo finito: che affronti -, “penso che [il problema] sia molto più ampio”, “bisogna vivere [il coraggio]”, “le emozioni ci sono [ma non… non vengono espresse]”.
Esprimendo dubbi soggettivi, non usa il congiuntivo imperfetto, ma l’indicativo, tanto ha idee chiare anche nell’incertezza: “se [forse il problema] non era il mio, ma era il suo” – il congiuntivo (se il problema non fosse il mio, ma fosse il suo) indicherebbe un dubbio ipotetico di possibilità -, “pur essendo stata io la causa” – nella forma finita: benché sia stata io (al congiuntivo per ragioni sintattiche, ma equivalente a: benché sono stata io) -, “forse ero io quella che non permetteva a lui […] di capire come ero fatta io” – invece che: come fossi fatta -, “Io non esprimo [emozioni], non esprimo [sentimenti]”, “devo un attimo rimettermi a posto” – invece che: dovrei – “e vedere se riesco” -, “si vedrà se ritornare” – invece che: si potrebbe vedere -, “ho preferito dire”, “io voglio sapere, […] io devo capire se voglio bene” – invece che: io vorrei, dovrei -, “non posso rimanergli insieme” – invece che: non potrei -.
È naturale che anche l’ultimo intervento di Olga, che illustra le avversità cui è andata incontro per conquistare la sua autonomia, abbia i verbi all’indicativo – in questo caso, al passato -. (Non ne faccio una analitica elencazione, perché tutti quanti i verbi sono allo stesso tempo). Anche il discorso sul condizionamento da parte della società è esposto con verbi all’indicativo presente – a parte le costruzioni sintattiche che impongono il congiuntivo -. Non è irrilevante la segnalazione, soprattutto se l’eloquio di Olga viene messo a confronto con quello del seminarista, il quale espone a volte al condizionale, o con una fiumana di avverbi dubitativi, i propri stessi convincimenti – al contrario di quando interviene per dar consigli su qualcosa di cui non sa proprio nulla e in cui, invece, una persona normale userebbe formule interrogative o ipotetiche -.
Le dubitative di Olga sono di fronte alle incertezze nel sociale.
“i problemi che ci potrebbero essere di fronte alla società”.
- g) Inappagato realismo e irrealismo appagante
Nadia è realistica; non “sogna”: va “via”. Anna non va via, perché spera l’irrealizzabile. Da ciò deriva la prima contrapposizione – in ordine di intervento -.
NADIA: “quello che ho fatto io andando via” (15).
L’interrompe Anna con una avversativa – non è contrapposizione, ma di stupore incredulo, di interrogazione stupita.
ANNA: “Ma andando via dove? (16).
Anna ribadisce l’atteggiamento di meraviglia, direi di curiosità e non di avversità.
ANNA (a NADIA): “Ma adesso che hai lasciato quest’uomo… (22). “Ma…[…] non hai temuto la solitudine, non hai temuto…” (24). “Ma poi questo conflitto” (con i famigliari) (68).
Il fatto che Anna non sia in antagonismo nei confronti di Nadia è dimostrato dal fatto che, subito dopo, ella confessa che vorrebbe fare la stessa cosa che ha fatto Nadia, ma lo stato matrimoniale gliela rende problematica: e proprio per questo è curiosa di capire, dato che teme che lo stare fisicamente soli sia insopportabile.
ANNA (a NADIA): “non riesco ad immaginarmi… completamente sola” (26).
Da ciò deriva anche la contrapposizione nei riguardi di Nadia: non circa la sua persona, ma circa la scelta che l’altra, giuridicamente libera, ha potuto compiere.
ANNA (a NADIA): “però [non riesco], per [se lo lasciassi]” (26).
È invece Nadia a concedere, per così dire, meno ragionevolezza alla logica di Anna. Per Nadia, Anna, per dir così, si mangia la coda: e le contrappone obiezioni, sia di esperienza, sia di buon senso.
ANNA: “vorrei tanto avere […] qualcuno” ecc. (26).
NADIA (ad ANNA): “Ma io ho avuto una persona” ecc. (27).
ANNA: “Non lo so!” (se ama ancora il marito) (39).
NADIA (ad ANNA): “Dovresti saperlo (sorridendo)” (un po’ critica) (40).
NADIA (a RAISA, che ha preso le difese di Anna): “Ma è l’unico modo” (42).
ANNA: “siamo tutti incatenati” (48).
NADIA (significativamente, dopo l’osservazione di ANNA): “L’unica forte sono stata io” (49).
Poi però, quando Anna prosegue, diffusamente, con la sua storia, Nadia cessa di contrastarla: forse ne rispetta il dramma interiore.
Un iniziale conflitto è accennato invece, stranamente, da parte di Olga nei confronti di Nadia. Dopo che Nadia, alla domanda di Olga – che non ha ancora parlato di sé -, dice di stare “benissimo”, Olga le rivolge un interrogativo che, se non di ripulsa, è perlomeno di stupore:
OLGA (a NADIA): “E allora perché sei qua?” (20).
Ciò che stupisce è che proprio Olga ha risolto, meglio di Nadia – che ha già parlato di sé -, il problema esistenziale di fondo, come asserisce alla fine della seduta (“anch’io ero da sola, eppure me ne sono tirata fuori”).
Tuttavia, tra loro non si sviluppa alcun contrasto, tanto che Nadia non interviene mai contro Olga – la cui filosofia è comprensibile che trovi Nadia concorde -.
Il contrasto di Nadia è con Raisa: e si comprende!
NADIA (subito dopo il resoconto di RAISA): “Io sono riuscita a scappare” (15).
NADIA (a RAISA): “Ma tu [ti condanni da sola], scusa” (sentendo la necessità di attenuare, col chiedere “scusa”, l’accusa!) (137)
NADIA (a RAISA): “Non puoi magari fantasticare” ecc? (143).
Vania interviene poco; ma la sua reazione è palese nei confronti di chi attenti all’unità famigliare o alla immagine dei genitori. I suoi interventi sono quasi esclusivamente in questo senso.
VANIA (a OLGA): “lascia un marito come cambia un vestito che è andato fuori moda” – terribile! -(81).
VANIA (a NADIA): “non vuoi dire anelare via da quelli che sono realmente i tuoi genitori” (76).
VANIA (ad ANNA), insistente: “Perché non vai” [a lavorare con lui” (125), potresti provare” (127), “Non ti costa tanto”(l29)
VANIA (a RAISA): “però sai, quella è casa tua”(139).
Della impazienza di Anna nei confronti del seminarista, già si è detto. Qui valga ricordarlo, per aggiungere una considerazione su un altro versante: il seminarista, benché intervenga spesso – dopo che si è liberato della diffidenza nei confronti di un gruppo sconosciuto -, non considerato per nulla un leader. Persino Raisa lo investe con un laconico pronome di sbalordimento, quando il seminarista sostiene che Anna e il marito “questa volta sceglierebbero assieme” la prole! RAISA (al SEMINARISTA): “Cosa?” (nel senso di: ma che dici!) (113).
- h) Ipotesi di leadership nel gruppo
Riguardo alla leadership, qui risulta che essa non è relativa n al numero, in sé e per sé, degli interventi, né alla lunghezza dei singoli interventi. Escludendo la terapeuta a motivo della sua stessa funzione e considerando Olga, che è quella che compie interventi più corposi e meno numerosi, bisogna vedere:
1) quando essi si collocano;
2) se e come sono interrotti;
3) quanto sono recepiti – cioè, se influenzano la narrazione altrui -.
1) Quelli lunghi di Olga si collocano
nella seguente dinamica: il primo, per una critica globale alla rassegnazione di Anna e di Raisa circa il matrimonio; il secondo, per condurre la problematica alle radici culturali; il terzo, per fare il punto, attraverso la propria esperienza, sulla dialettica autonomia-solitudine, vissuta inautenticamente da Anna e raccordandosi inoltre ad una osservazione di Nadia; il quarto, per narrare i dati concreti della propria scelta di autonomia.
I suoi interventi sono dunque più teorici e fondativi che personali – salvo due brevi domande a Nadia, una risposta a Vania e una domanda ad Anna, tra l’altro eludendo del tutto un precedente immediato intervento del seminarista, del tutto ridicolo (“Buttali via [i cataloghi])” -.
2) Quelli di Olga non sono mai interrotti da altri, salvo una volta da Vania, reattiva nei confronti della risoluzione dell’unità dei genitori; neppure quando ella si sofferma sulla propria esperienza di libertà.
3) Quelli di Olga sono raccolti solo da Anna, in direzione antagonista – Anna rifiuta la linea di “chiusura” con l’esterno, indicata da Olga -. Per Olga non controbatte: e questo dice molto su quanto Olga si ritenga extra – ma non supra – partes. Sono presi in considerazione, per, dalla terapeuta. Nel suo primo intervento, segnala l’aggressività di Olga nei confronti di Nadia; nel secondo, il tema della “responsabilità”, focalizzato da Olga; nel terzo, riprendendo la tragica espressione di Olga sulla solitudine che “annienta”.
Si può dire dunque che Olga svolga una funzione di leadership non già dialogica, ma di autorevolezza nel senso della esemplarità. Lo ammette Raisa: “Sì, effettivamente il tuo è stato un atto di coraggio”.
Tra coloro che fanno numerosi interventi, si segnalano Anna e Raisa e Nadia. Anna, tuttavia, è percepita come un soggetto che non ha nulla da presentare di propositivo. È molto contraddetta e, quando si inserisce ella stessa nel dialogo, lo fa o per capire come abbiano fatto gli altri soggetti ad affrontare i problemi del condizionamento e della solitudine – a Nadia -, o per ribellarsi alla soluzione di Olga; solo nei confronti di Raisa fa un intervento di autorevolezza (“Ma tu ti condanni da sola”).
Del resto, ella stessa ammette che abbiano qualcosa di propositivo da dire solo Nadia e Olga.
Raisa si trova nella medesima posizione di Anna; la differenza è che ella accenna ad una funzione di guida interloquendo con il seminarista – per i motivi sopra esposti -. Tuttavia, ella mostra un tentativo di assumere una leadership, sfruttando l’atteggiamento disorientato di Anna e a volte di Nadia:
RAISA (ad ANNA): “Ma siete solo voi due?” (10) “Ma tu pensi che”, ecc. (36) – in cui l’avversativa non è di contrapposizione: serve a chiedere ragguagli; comunque è un modo di “guidare” la confessione di Anna. La stessa cosa vale per i seguenti interventi:
“Ma lo ami ancora?” (38), “Ma non facile” – osservando a favore di Anna contro Nadia – (41), “Ma scusa, tu non pensi magari che potresti” ecc. (84), “Ma con lui, per…” (89), “Non è che sogni un altro uomo…” (91) – le ultime due richieste di chiarificazione sono forse, più che di opposizione, di celata invidia -. “Forse lei (Anna) si è accorta che non
lo [il marito] amava più” (93)
– una osservazione che tenta di essere conclusivo del pensiero di Anna, quasi che la locutrice voglia tirare le fila del discorso -. “Almeno il latte lo avete” ecc. (108) – introducendosi a proposito dell’eventuale figlio, per poi intervenire, come ho spiegato, contro l’ipotesi avanzata dal seminarista – “Ma neanche di non esserlo [innamorata]” (134);
RAISA (a NADIA): “Sei sicura che non lo incolpi di niente?” (70), “Ma se non ci fosse stato lui” ecc. (160), “Ma tu hai comunque qualcuno” sovrapponendosi – (162) “… e i tuoi genitori, dicevi” ecc. (sovrapponendosi) (164), “È chiaro! Però, per lo meno” ecc. (166), “È chiaro! Però nel momento” ecc. (168), “Ma se io me ne vado” ecc. (170) – in quest’ultimo caso, però, parlando di sé -.
Il soggetto che tuttavia interviene con maggiore decisione, e che è preso in considerazione dalla terapeuta, è Nadia.
Nadia è l’unica che interloquisce con Sofia: ed è sempre con una certa determinazione e chiarezza di idee.
NADIA (a SOFIA): “la tua vita!” (29), “Quello è il problema…” (31), “che conta” (completando la frase di Sofia) (33).
Ella è dunque l’unica che parla con ognuna delle persone del gruppo.
Ed è l’unica, di cui la terapeuta dica il nome, e per due volte “la scelta alternativa di Nadia”, “nel racconto precedente di Nadia”.
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