1986, IF, I volti “popolari”
I volti “popolari” della Madre di Dio in alcune Laudes del ‘200, «L’Italia Francescana», 3 (1986) 237-256.
Testo dell’Articolo
Nella poesia popolare del ‘200, che coincide con il nascere, in Italia, del volgare letterario, o dei suoi albori, la letteratura mariana conosce forse la massima espressione della semplicità. La dottrina teologica non vi manca, ma è come sottesa e comunque strettamente legata alla rappresentazione essenziale dei Vangeli, come in «verzene puella», «piena di grazia», «ancilla» del Signore, e ispirata all’interpretazione dommatica della Patristica, come in «beata», «sovrana», «stella resplendente». Si può dire che il dogma è dunque presente nella sua sostanzialità, alieno da arditezze concettuali, anche se a volte movimentato da qualche tratto enfatico, tuttavia sempre dignitoso e contenuto. Caratteristica comune delle laudes è il presentarsi come espressione della devozione mariana nella sua immediatezza, così come è sentita dall’anima comunitaria (l’autore è in genere collettivo, è una «compagnia» o «confraternita»), e perciò non soggetta a interpretazioni particolaristiche. È vero che, in ciò, sta anche il limite delle numerose composizioni di questo genere, poiché esse non raggiungono sempre livelli originali e innovativi; tuttavia in esse è da segnalare quella aderenza alla parola biblica, di cui tuttavia non è una pura imitazione ma una ricomposizione emotiva. Esemplare in questo senso è un passo di una lauda bergamasca, nella cui citazione evangelica si coglie tutto il calore cordiale della gente: «Ave, Maria, de gracia piena! / Dominus tecum! o salve, ragina. / Ave, Maria, de grande sientia, / de’ a no gracia de far penitencia»[1].
Inoltre, le laudes non sono neppure una ligia imitazione liturgica. Esse infatti sono il canto di un gruppo di fedeli che esprime pubblicamente la sua fede, nutrita sia in famiglia sia in chiesa, secondo una angolatura culturalmente legata al tempo; l’inno liturgico è invece la formulazione specificatamente sacrale dei sentimenti religiosi dell’universalità del popolo di Dio, anche se mediati o esposti, in concreto, da qualche personalità singola. Per questo, la teologia si presenta nelle laudes, più che nelle composizioni ufficiali, con le caratteristiche della propria epoca, la quale sente, influenzata dai cantari provenzali, il fascino dell’amore tenero e, colpita dalle sventure naturali o dal disorientamento politico e religioso, vive l’angoscia dei perturbamenti con spirito spesso avveniristico; e, tutto ciò, sempre ancorata alla figura «cortese» della donna protettrice e sovrana.
Su queste premesse, si sviluppa una devozione mariana, con anticipazioni altomedioevali, molto sentita e partecipata, estesa a tutte le componenti del popolo fedele e per molti aspetti veramente innovativa: la creatività è determinata, qui, dal popolo medesimo, dalla «base». Letterariamente, la documentazione ha anche come protagonisti singoli individui: ma la fede e le realizzazioni concrete sono collettive, sono «di massa». Al riguardo ricordiamo l’introduzione della pratica dell’Ave Maria, come uso di suonare le campane ad ore determinate in onore della Madonna e come momento di preghiera corrispondente ad esso, fatta risalire a Bonvesin de la Riva, per altro dell’area patarina: e ciò sta a dimostrare l’universalità della pietà mariana, intatta nelle correnti divergenti in campo ecclesiologico. In un suo componimento specifico[2], egli onora l’immagine di un frate semplice e indotto, che «no sapeva dire ni canti ni lection / ni paternost ni salmi ni altre oration» (vv. 21-22), ma che costantemente «ave-maria diseva con grande devotion» (v. 23), e che fu premiato non solo con l’essere fatto degno di entrare nella città celeste dopo la morte (cfr. vv. 30-31), ma anche con l’essere strumento di un prodigio rivelante l’importanza dell’Ave Maria.
Unitamente al tema della «mader graciosa»[3], si trova nelle laudes quello della «mader dolorosa»[4], in rapporto sempre all’attitudine salvifica di Maria, nella preoccupazione medioevale del giorno della «sentenza», quale ben risulta nel Dies irae di Tommaso da Celano. La dinamica psicologica è che la madre, la quale si vede il figlio ammazzato per gli uomini, può capire gli uomini, anch’essi nella disgrazia, e acquista il diritto di intercedere per loro. Da qui, la tendenza realistica del filone mariologico dello Stabat mater e la ricorrente immagine della tradizione biblica in cui la Madonna appare testimone oculare della passione di Gesù: «su la cros che vo l vedisef», dice la citata lauda bergamasca[5].
Come conseguenza tematica, risulta radicata l’idea di Maria intesa come «nostra advocata»[6], entrata a pieno titolo nella Salve Regina, composta nella prima metà del ‘200.
Dal punto di vista del vissuto mariologico, dunque, le caratteristiche delle laudes duecentesche sono l’amorevolezza umana del rapporto tra Maria e Gesù, la sofferenza di Maria come madre, l’accoglienza pietosa di Maria come «signora» dei propri sudditi. Dal punto di vista letterario, esse ereditano lo schema delle canzoni del tipo della ballata.
- «Sposa» amorosa
L’amorevolezza mariana delle laudes si inscrive nella visione della donna «piena d’ogne cortesia»[7] di origine trobadorica e poi siciliana (passata quindi nella poetica stilnovista con interpretazione «borghese»), che informa la nobiltà di quel genere di interrelazione che passa tra l’amato e l’amata. Maria è definita («amoroxa»)[8], «verzene d’amore». Si tratta della piacevolezza in sé, dell’amore che in sé è la Madonna come figura per antonomasia dell’affetto, come «amante» per eccellenza e al contempo degna d’amore, sempre come segno e veicolo prototipico dell’amore divino. Il «piacesti a Dio» dantesco e poi, con affettività più che con razionalità, petrarchesco, è anticipato in una lauda bolognese con il linguaggio immediato, incolto ma sostanziale, della fede popolare[9]:
fusti a Dio tanto piacente
più che neuna altra mai sia.
La menzione geografica della generazione di Gesù da parte di Maria, nella citata lauda, sembra a prima vista puramente occasionale come ricordo soltanto esteriore. In realtà, il «partoristi in Oriente» (v. 20) richiama l’immagine della «stella resplendente» (v. 19), la quale, molto comune nei Laudari, è posta qui in relazione al significato simbolico dell’«oriente», secondo il valore di tutta la simbologia medioevale compresa quella dantesca[10]. L’importante particolare teo-logico, sotto la veste formale della rima, consiste nel connettere il «risplendere» di Maria – con il suo privilegiato parto in «oriente» – con il «piacere a Dio»: tutto il valore di Maria sta nell’essere gradita a Dio; le sue stesse prerogative singolari si conchiudono, come nel proprio vertice essenziale, nel rapporto di «piacere», ovviamente reciproco, con Dio.
È, questa, un’affermazione biblica; ma nella lauda essa è congiunta anche alla visione della donna come esemplare di «bellezza» (v. 25), che evoca, anticipando la donna petrarchesca, immagini floreali (cfr. v. 24): la Madonna è «oliva fresca e novella», che sottende la «radix Jesse» veterotestamentaria e che troverà riscontro nella «Virga Jesse» di Ser Pace[11]; ella è «fresca rosa sì vermiglia» (v. 12), è «roxa del giardino», che richiama l’«hortus» del Cantico dei Cantici, 4, 12, e che trova riscontro nella «rosa bianca e vermiglia», nel fiore «aulente» di Garzo dall’Incisa[12].
Anche la purezza è vista, qui, nella medesima cornice: essa è una virtù morale, ma come dote che conviene alla «donna gentile»[13] secondo la concezione del tempo per cui la gentilezza comprende un complesso di qualità nobili dell’animo, che vanno dalla bontà alla severità dei costumi. Maria è tutto questo, segno ed emblema sommo dell’ideale etico e civile dell’uomo medioevale, prototipo dei valori supremi della nuova società – che perpetuava quella più antica – aristocratico-borghese, o, più esattamente, della società «cortese» interpretata dalla coscienza popolare. Il «tanto pura te vedeva»[14] corrisponde alla tradizione evangelica, e soprattutto patristica, della verginità di Maria; ma qui ha appunto un’orizzontalità più umana, quale si riscontra nell’«onesta palma» di Ser Pace e nell’espressione della medesima lauda bolognese, la quale rappresenta, con una simbologia al contempo dotta ed agreste, la purezza della Madonna come una «oliva fresca e novella / che stadi fresca tutavia» (vv. 29-30). Qui il dogma della verginità conserva tutto il valore teologico, ma con accenti familiari, con analogie tratte dall’esperienza quotidiana, con la semplicità e la naturalità di cui la «fresca oliva» è simbolo poetico e intuizione non mediata, «ricordo biblico e immagine della vita ordinaria.
La forza sorprendente della teologia mariana della lauda bolognese citata si impone in una definizione importante quanto rara: Maria è «de Cristo spoxa» (v. 16). Maria come figlia prediletta, dopo Cristo, del Padre, come Madre del Figlio di Dio e come Sposa della Spirito Santo è ricorrente negli scrittori ecclesiastici e nelle stesse laudes. Tra le attribuzioni antonomastiche, è pacifica quella della sponsalità nei riguardi dello Spirito Santo, grazie alla quale attribuzione la Madonna fa parte, sul piano della grazia privilegiata, della famiglia divina. Ma l’essere sposa di Cristo, questo è originale.
La madre di Gesù è, al contempo, sposa di Gesù. Qui c’è il debito verso la visione duecentesca della donna, ma esso irrompe nella lauda con una profondissima portata teologica.
In parole povere, il testo indica, nel quadro della cultura duecentesca riguardante la figura femminile, la seguente verità più che pacifica: Maria, madre di Gesù, ama Gesù. Ma tale verità si carica di ulteriori implicazioni teologiche, dagli orizzonti più vasti e ricchi: Maria è madre spirituale degli uomini (e su questo tutta la fede cattolica aveva sempre insistito) in quanto ella è compartecipe dell’opera salvifica di Gesù. La «sposa» dunque non è soltanto «colei che ama» suo figlio, ma colei che coopera con il figlio, unita dall’amore quanto dalla predestinazione. Sposa sta, da un punto di vista morale e giuridico – almeno per il medioevo – inequivocabilmente per congiunta del Cristo nell’essere artefice della nostra salvezza, come direbbe San Paolo. Maria partecipe della generazione salvifica di Gesù, è dunque «sposa» di lui come lo è la co-generante con il generante. In questa definizione del popolo di Bologna, l’amore materno di Maria acquista una ricchezza e delicatezza particolari, poiché la madre non è connessa al padre (Maria non è «madre» di Dio in parallelo al «padre» del Verbo), né la figlia è connessa alla madre (la «figlia» del padre come «madre» del figlio di Dio); ma la madre è connessa alla sposa. Ovviamente senza nulla togliere alla tradizionale e assodata posizione teologica di Maria, qui ella appare amante, nel senso più divino del termine, di colui che per gli uomini non svolge la funzione di padre, ma del fratello, del «simile» che comprende «in tutto» le miserie dell’uomo, avendole egli stesso sperimentate, come dice San Paolo.
Ma non basta. Maria è una «dona» (come madre o come sposa? in effetti, come madre e come sposa) che addirittura poté vincere il «Cristo onnipotente» (v. 36). La spiegazione di questa «vittoria» sul Cristo è posta nella capacità di «catturare», per così dire, il Cristo stesso nel proprio «ventre» (v. 37), cioè il Dio «che in cielo e in terra non capia» (v. 38). La forza soprannaturale di questa donna consiste, dunque, nell’essere madre di colui che cielo e terra non contengono. Ma non solo questo. Il fatto che «in ti venne il sole divino» (v. 33) sembra essere conseguente; la condizione morale di questo fatto è indicata nella definizione di «prudente» (v. 35) di questa donna. La prudenza rimanda, evangelicamente, alla disponibilità costante, all’attesa affettuosa, all’atteggiamento, appunto, della sposa. E su questo tono insistono le laudes duecentesche.
Una lauda genovese[15] vede la madre in attitudine particolarmente affettuosa: tipica cioè della donna che ha generato, ma soprattutto che ha generato con amore. Ella tiene «sempre Jeso Criste in brazo» (v. 2), e con «quelo doze fiior» (v. 10) ella si diletta continuamente «en perpetua solazo» (v. 4). Le dolcezze di Maria presso Gesù sono prese in considerazione anche dall’austero Jacopone da Todi[16].
La figura della Madre di Dio jacoponiana è circonfusa di fascino non ignoto alla letteratura e all’iconografia sulla natività, e soprattutto trae ispirazione dal sentimento genuinamente e profondamente «umano» esaltato e consacrato dal «poverello» d’Assisi.
O Maria, co’ facivi,
quando tu lo vidi vi?
or co non te morivi
de l’amore afocata?
C’è la meraviglia di fronte al «Dio (che) ce contemplavi / en quela carne velata»; ma c’è anche il gusto della donna-madre, colto mirabilmente dall’autore, in quel «consumarsi» di Maria «quando tu lo guardavi». La delicatezza affettiva della Vergine spinge l’austero a seguire le cure più gratificanti della medesima donna-madre, ad esempio quando il Figlio «sugea» il latte (anzi, dice il testo, «te sugea»): l’intima dedizione materna è rappresentata dall’autore, con un’arditezza finemente umana, con il successivo verso: «l’amor co te facea». L’esser «mate di Dio vocata» congiunge l’umana con la teologica considerazione, unisce il meraviglioso della tenerezza con il soprannaturale della dogmatica. Non è cosa da poco che il rigido mistico francescano, chiuso ai piaceri della vita, apra questi spazi di vita piacevole che intercorrono tra la madre-sposa e il suo figlio-sposo. Se non altro, questa sublimazione del flagellante convertito focalizza la costante dell’esigenza sentita dagli uomini del suo tempo, che nel prototipo della donna, individuato in Maria, vedevano ciò che avvicina, non ciò che allontana. Vedevano l’umanità amorevole.
O Madonna, quigli atti
che tu avev’en quigli fatti,
quigl’infocati tratti
la lingua m’han mozzata.
Così, il Laudiam l’amor divino, probabilmente dello stesso autore, ripete il quadro trascendente e terreno, in cui traluce, sottesa all’affettuosità che tutti gli uomini conoscono, l’amorosa attitudine di Maria ad amare tutti gli uomini nei quali ella vede il «Santo Cristo». La madre, stringendolo al seno, dice il testo, «di Dio ti innamorasti, / quella bocca baciasti / di quel dolce Fantino».
- Madre «dolorosa»
La storia della Chiesa dopo il 1000 si drammatizza nelle lotte politiche e politico-religiose, accompagnate da movimenti «profetici» che, nella ricerca di un risanamento della compagine ecclesiale combattuta tra tentativi di rinnovamento e problemi temporali (rispettivamente, ad esempio, soprattutto con Leone IX e Gregorio VII), determinano a loro volta conflitti sia nel foro esterno sia nelle coscienze, e sviluppano attese avveniristiche, millenaristiche, nel terrore e per la speranza, ma più nell’angoscia che nella pace. La complessità a volte tragica delle questioni di potere, di certo non superate dal IX Concilio Lateranense, venivano ad essere effettivamente esacerbate da quelle tendenze «profetiche» che ormai, nel corso del sec. XIII, neppure la catalizzazione delle crociate poteva in qualche modo assopire o integrare. Contro l’impostazione mondana di alcuni settori gerarchici – non risparmiati, poi, nel ‘300, dal medioevalissimo e ortodosso Alighieri –, le correnti più radicali irrompevano nella vita della comunità cristiana con plastiva violenza e, soltanto per ricordare alcuni fenomeni meno lontani dall’obbedienza romana, riproponevano drasticamente il senso della «passione»: dalla povertà assoluta degli «spirituali», compresi alcuni protagonisti d’eccezione, problematici ma in fondo remissivi, come il francescano Pietro Giovanni Olivi (+ 1298), alla mortificazione corporale dei «flagellanti»[17]. Si può dire ad esempio che Valdo e i «poveri di Lione» riproposero l’urgenza della purezza della Chiesa in un contesto, anche politico, di fuoco, in un susseguirsi di scomuniche e controffensive, di anatemi avallati dal braccio secolare, perlomeno dal Concilio Lateranense del 1215, e di ribellione. In questa atmosfera, il «sangue divino del Salvatore», già venerato e cantato nel secolo IX[18], perdeva la sua nota di cristiana serenità. Per di più, il movimento cataro si poneva, per un verso, in antitesi con la croce, considerata la carne un ostacolo allo «spirito» e la passione di Gesù contrapposta alla sua divinità. Il catarismo influì su molti aspetti della religiosità medioevale, e la stessa austerità albigese od umiliata ne furono una contorta applicazione.
Contesto storico di dolore, dicevamo. Ma qui ricordavo quell’ultimo aspetto perché, a nostro avviso, la presenza del dolore e del tremore nei mistici e nei Laudari contemporanei rappresenta una assunzione della dimensione sofferente del cristianesimo, influenzata, sì, dal momento storico oggettivo, ma anche dall’istanza di recuperare, su un piano di maggior purezza e serenità, le tensioni esasperate dell’eterodossia, esaltanti e insieme neganti la medesima dimensione. Per un altro riguardo, si pensi ad esempio a un Francesco d’Assisi, che alla visione, fortissimamente difesa, dell’aspetto sofferente, umiliato, povero del Cristo impresse anche uno spirito consapevolmente gioioso, che lo distinse da contemporanei o immediatamente precedenti fautori di un Dio più che triste, tristo.
Il sentimento generale dell’epoca, sotto questo riguardo, può essere comunque esemplificato nel Dies irae, nobile inno in latino popolare, elevato a dignità liturgica dalla Chiesa. Il concetto di «ira», «favilla», in cui è rinchiuso e in cui si conclude la storia, permea tutto l’animo del penitente, nel «tremore» del «giudice che sta per venire immediatamente» a fare i conti, senza che ci sia alcuna possibilità da parte degli uomini di farsi passare per brava gente: «stricte discussurus!», «nil inultum remanebit». I paesi della bella crosta terrestre, così percorsa da furori di carne e da smanie di potere e di oro, sono diventati uno sterminato cimitero di «sepolcri», l’uomo è un miserabile, ed il canto termina ancora con la «favilla», l’«homo reus» va messo sotto processo. Il difensore ci sarà: ma è uno solo, ed è uno che non chiacchiera. È uno che ha sofferto. Ci si deve fidare: ma non si può barare. La composizione, attribuita a Tommaso da Celano, contiene tutto lo spirito del cristiano: alla fine del canto, infatti, il «quel giorno lacrimoso», efficacissima espressione con l’aggettivo causativo, ha perso tutta la sua immagine terrificante. La «tremenda Maestà» incomincia ad essere addolcita dalla «gratuità» della salvezza: verità pericolosa, ma rasserenante dal momento che la «grazia» dipende da uno che ha la volontà di salvare. La stessa «maestà» vien poi ad essere definita «fonte di pietà», e diventa infine «Jesù pietoso», quell’uomo che «ha cercato l’uomo sedendosi stanco» al pozzo, o all’angolo della strada, che «ha assolto Maria», «ha ascoltato il ladrone» e che è innalzato, nel canto teologico e poetico, sulla croce quale «paziente» non inutile. Il francescano ha convertito la paura in speranza («mihi quoque spem dedisti»), l’angoscia in timore, la flagellazione del corpo in «contrizione del cuore», la stupida atrocità della passione, secondo il catarismo, in un «labor», in una ricerca affettuosa, pur nella penosità fisica, da parte di Gesù.
Questi sono i sentimenti di fondo che ispirano le descrizioni della Madonna martirizzata delle laudes.
Tra il V e il VI secolo, il bizantino Romano il Melode aveva già cantato la Madonna ai piedi della croce. La poesia, però, innanzi tutto è centrata su «Colui che per noi fu crocifisso»[19], ed inoltre respira di quell’aria pacata che smorza in narrazione evangelica la sofferenza del morente e della Madre. Tutto ciò è tipico, in effetti, della cultura bizantina. Gesù resta, nella poesia, «il mio Dio», ripetuto ben quattro volte, alla chiusura delle strofe. L’«agnella», pur «gridando» al vedere il «suo agnello» «trascinato al macello», pone tante questioni e domande, racconta tanti episodi della vita del «Verbo» (termine teologico inusitato nelle laudes!). L’angoscia di Maria appare più simile allo stupore del teologo che all’affranto di una madre: «Non avrei mai creduto, o figlio, / di vederti in questo stato». La conclusione di Maria è anch’essa dottrinale: la «morte è ingiusta», per Gesù, ma con essa egli ha salvato tutti.
In un clima diverso, la passione di Maria costituisce inoltre uno dei temi ricorrenti nelle laudes. Ancora in «volgare piemontese», nel ‘200, una lauda è costruita a forma di «lamento», non ancora sviluppata in maniera rappresentativo-dialogica come in Jacopone. In queste composizioni popolari, Maria acquista un atteggiamento umano nel senso più naturale del termine, si comporta, pur nella sua dignità, come una madre che, al vedere il figlio «susa la crox mort e trapassa»[20], perde i sensi, «lo cor li fal e tomba strangossà», e sembra «a tuyt morta e trapassà»; poi ella si abbandona quasi alla disperazione, «se bat le palme e comenza a crider», e, mettendosi «dolossamente» a parlare con il «so car figl», esprime il proprio destino di gioia-dolore. È una riflessione ricorrente nelle laudes sull’«addolorata» questo riferimento alla profezia di Simeone: Maria, che è beata per essere la madre del Salvatore atteso, ora le «crepa lo core per sì gran dolore».
La rappresentazione popolare di Maria risulta dunque più «umanizzata» rispetto a quella patristica, secondo la quale ella «sta» presso la croce (come, per la verità, anche nello Stabat Mater), e non solo «intrepida», ma quasi impassibile, sia per discrezione sia per forza d’animo, come aveva sottolineato Sant’Ambrogio[21].
Una lauda di Garzo dall’Incisa al riguardo è particolarmente interessante per l’equilibrio fra la descrizione «addolorata» e la riflessione dogmatica, conformemente alla consueta ricchezza teologica della sua poesia profondamente unitaria[22]. Rivolgendosi alla Madonna, egli le ricorda quanto sia stata «amara» «quella pena» vedendo il figlio stare in ara. La croce è il primo altare, la Madonna sembra essere il primo sacerdote: Gesù, «com’agnello» di biblica memoria, e sua Madre risaltano per il loro patire con coraggio. E la madre soffre, adesso, quello che non ha sofferto nel parto, vede Gesù nell’immolazione cruenta, «partecipa» a quella sofferenza, la fa sua, vi si unisce senza cedere: e, con ciò, ella ha dato forza alla fede degli uomini. L’uomo sa che, per il Cristo, ha dovuto soffrire sua Madre: e in questo consiste la vera prudenza di Maria, nell’accettare cioè di essere partecipe alla croce del Cristo, croce di salvezza per tutti i fratelli di lui e figli di lei.
O Maria, virgo pura
molto fosti fort’e dura;
non fallasti per paura,
perché tant’eri prudente.
Nella succinta indicazione di quest’ultimo verso è dunque sintetizzato tutto il valore dell’economia della sofferenza cristiana – di cui Maria è prototipo materno -, la quale non è salvifica in sé e per sé, ma in grazia della volontà, decisa ed umile, di adeguarsi all’imperscrutabile disegno di Dio. Per questo, allora, la prudenza di Maria, che ricorda quella delle «vergini prudenti» del Vangelo, significa saper attendere, saper non cedere «per paura», cioè per sfiducia impaziente. Le «vergini stolte» del Vangelo, parametro di contrapposizione a questa sapienza e prudenza, avevano, invece, rinunciato ad «attendere lo sposo» che tardava. Qui, sulla croce, lo sposo è invisibile, il Cristo è come uno sposo che tarda. Ma la Madonna, come il cristiano, sa che, dopo, egli arriva: dopo l’«oscuramento del sole», per dirla biblicamente, apparirà la gloria del Figlio dell’uomo. La costanza di Maria non è da intendersi soltanto in senso psicologico. Anche questo aspetto è inteso dalle laudes, che individuano nella Madonna la tipicità della figura della donna e della madre; ma la forza di «confermare la nostra fede perché non sia perdente» deriva direttamente dal significato teologico e morale dell’atteggiamento di Maria, la quale sta ad insegnare che la sofferenza di suo Figlio è storicamente e individualmente salvifica in coloro i quali accettano la dialettica della croce, cioè il passare con spirito fermo, certezza interiore e sottomissione obbediente attraverso le prove dell’abbandono e del dolore.
È in questo contesto teologico che bisogna leggere le laudes sulla passione di Maria, spesso descritta nei particolari momenti, narrati dai Vangeli, della crocifissione e morte di Gesù. Tipica in tal senso è una lauda anonima[23], molto semplice ed efficace, che echeggia lo Stabat Mater.
Vedeva il capo che stava inchinato
e tutto il corpo ch’era tormentato
per riscattar questo mondo perverso.
Vede l’aceto ch’era col fiel misto
dato a bevere al dolce Jesu Christo
e un gran coltello il cor le trapassava.
La teologia della devozione popolare delle laudes non travalica dalla tradizione mariologica del cristianesimo primitivo. Le figure retoriche della composizione, dall’alliterazione alla rima baciata, non fanno che scavare l’immagine dell’uomo dei tormenti, che è il Cristo, e, attraverso la testimonianza oculare di Maria, sottolineata efficacemente dalla ripetizione martellante del verbo «vedere» in posizione iniziale, quella non meno dolorosa della Madre stessa.
Vede lo figlio tutto passionato
dicer colla Scrittura: tutto è consumato:
fiume di pianto dagli occhi disserra.
La delicatezza della venerazione medioevale verso questa madre così sventurata si esprime nella compostezza delle immagini asciutte, per quanto vivide e drammatiche; la partecipazione è sincera ed umanissima, cordiale e realistica, evidenziata dall’andamento prosaico dell’ultimo verso di ogni strofa. Ma non c’è esagerazione alcuna, non c’è enfasi retorica, non c’è gusto macabro. C’è solo dolore infinito, un dolore solitario quanto riservato: c’è un volto di donna bagnato di pianto. Un volto forte anche se provato, un volto che guarda al dolore, un pianto che ha il coraggio di seguire la morte: «Vergine Madre, come tu vedesti / il caro figlio, quando era spirato».
«Questo dolor» che fu «di tanta possanza» giustifica l’attribuzione da parte della Chiesa a Maria di Madre dei martiri, poiché esso «mille volte ogni martire avanza», dato che, come dice Giacomino da Verona[24], Maria stava addirittura «in croce con Cristo». La Madre di Dio, benedetta e beata, sembra conseguire in questo suo dolore, assumendo per se stessa le piaghe di Gesù[25], la suprema vicinanza al Cristo. Giacomino da Verona pone l’interrogativo, senza scandalo ma con pietà, del destino doloroso della donna beata: interrogativo che, del resto, è lo stesso che la Scrittura prende in considerazione riguardo a Gesù, e al quale essa aveva risposto con «oportebat»: «Perché hai tu fatto el vaso de santità, vaso de penalità?». In questa domanda pregna di stupore c’è tutta l’affettuosità filiale, tutto il dispiacere contristato di cui il termine medioevale «penalità» esprime meravigliosamente il dolore fisico e psicologico insieme.
Ma è un interrogativo, dicevo, anche fiducioso: poiché la contraddizione è vista in funzione del positivo finale e funzionale. E lo stesso autore dimostra sia la partecipazione affettiva sia la fede cristiana quando chiede, come altri mistici prima e dopo di lui, niente altro «se non le piaghe»:
«o tu me togli la vita del corpo, o tu vulneri el core mio.
La certezza di essere ascoltato si fonda sul fatto che «la natura della madre» è quella di «compiacere al fiolo in ogni cosa».
Il concetto è sviluppato nella lauda anonima precedentemente citata; grazie alla sua partecipazione alla passione di Gesù Maria diventa la «sola speranza», acquista supremamente il diritto e la capacità di essere «Madre di misericordia umile e pia»; ella infatti non solo conosce il dolore, ma attraverso di esso come Gesù attraverso la morte, ha vinto il «nemico», dandogli «scacco matto», come si esprime Garzo dall’Incisa.
Da qui la considerazione è portata logicamente, e con intuizione poetica, alla «pietà» di questa «donna», che è «dolorosa» perché «sposa» e madre, ed è «regina» perché dolorosa.
- Regina «pietosa»
La dottrina secondo la quale la Madonna, grazie all’Incarnazione, operatasi attraverso di lei, è diventata causa per cui «l’universo intero esulta di gioia»[26], risale alla Patristica ed è stata confermata nella letteratura italiana con i grandi poeti del ‘300. Nelle laudes del ‘200, il termine «regina (o «reina») ha, nella sua denotazione teologica, esattamente il significato patristico, nel senso di «donna di pietà», e non ancora quello di signora avente un regno. Il contesto storico non è quello delle grandi monarchie, ma quello provenzale e poi cortese delle piccole corti, del potere esercitato quasi a conduzione familiare.
Bonvesin de la Riva, di famiglia milanese (1240 ca.-1315 ca.), ricordato dalla storia della devozione popolare per aver introdotto l’uso del suono delle campane all’«Ave Maria»[27], accoglie nella seconda metà del ‘200 il termine «regina»[28] già introdotto dal laudario cortonense, uno fra i più antichi del genere. Tale regalità è specificata dalla «sanctitae» (v. 11), senza alcun riferimento alla concezione teocratica successivamente impostasi. Infatti, sinonimo di «regina» è «dona dei angeli», che rimanda alla concezione duecentesca dell’eccellenza della donna in quanto tale – intesa come esemplare della virtù e mezzo ad essa –, di cui Maria rappresenterebbe qui il princeps analogatum, l’archetipo. Si tratta dunque di quella regalità, che il dolcestilnovo avrebbe in seguito concettualizzato, sulle orme della cultura precedente, come ideale del bello e del buono in prospettiva antropologica, in rapporto intimo e personale con il «gentil core»[29]. Bonvesin si esprime in effetti in tal senso quando definisce la Madonna «soprana per beltae» (v. 15) e la chiama «nostra donzella», generatrice «de pietae» (v. 12).
La teologia della Madre di Dio come «salute del mondo» – Sant’Anselmo le aveva assegnato il ruolo di «riconciliazione del mondo»![30] – trova qui una coincidenza con la tradizionale «salute» che la donna possiede e dona[31]. Questa Vergine è coronata, invero, di tutti gli attributi della regalità duecentesca: ella è «plen d’omnia bontae» (v. 14), è al di sopra di «tute le vergene», ed infine è «magistra de cortesie e de grand humilitae» (v. 16), «conforto e alegrezza» (v. 19) di ogni uomo[32]. L’impostazione personalistica della lauda risalta anche nelle parti più propriamente teologiche (cfr. vv. 25-48). Il rapporto polivalente con Dio («fiola e madre e sposa», v. 26), l’incolumità dal peccato, perché fin dal «ventre de la madre si fo sanctificadha», (v. 34), la sua condotta volontaria in cui «zamai non fe’ peccao» sia «picena» sia «crezudha» (vv. 39 e 37), la sua mediazione fra Dio e gli uomini (vv. 45-60) sono inseriti in un contesto di rapporti di vassallaggio, per cui il potere costituisce una difesa dagli «inimisi» (v. 53), e in cui trova ancora posto la nobiltà «per sangue», del resto di biblica memoria, della «regina-signora» (v. 29).
Piuttosto rara nelle laudes, questa nota mariana è allargata, con connotazioni di natura borghese che preludono la poetica toscana, all’aspetto morale, alla nobiltà della virtù: aspetto, anche questo, fondamentalmente derivato dalla S. Scrittura per quanto riguarda il contenuto concettuale. Maria è «com femena virtuosa» dai «bon costumi»; ella è «larga» (vv. 27 e 53) e accogliente, umile e «non dexdeniosa» (v. 28).
La funzione di mediatrice è attribuita dunque ad una figura al contempo del tutto speciale e aristocratica («altivosa», v. 29; «gloriosa», v. 30; «speciosa», v. 31; «plu dignitosa», v. 32) e del tutto umana e combattente accanto agli uomini, anche se alla loro testa e dotata di particolare potenza; ella è «tutix, nostra «confalonera» (v. 41), come dice anche Giacomino da Verona nelle Laudes B. Mariae V. (v. 62); ella difende chi si pone «soto la soa bandera» (v. 39), cioè coloro che le prestano giuramento come vassalli («ki voi star sego in sgiera», v. 42), e per loro è sicura vittoria poiché ella è «molt fort guerrera» (v. 43).
Si tratta, dunque, di una regina dall’aspetto della madre di famiglia, di tutta «larghezza», come diceva Garzo dall’Incisa nella lauda citata (v. 80)[33], una «signora» nobile, sì, ma del paese familiare, della terra stessa dei suoi fedeli. È così che Bonvesin de la Riva può dire di questa «regina dolce» che «molt’ama li suoi amisi» (v. 49). È così che ne consegue un rapporto reciproco da parte dei «soi devoti» che sono «del so amor prisi» (v. 50). Questi sudditi-amici, «se justamente la pregano », sono «molto ben intìsi» (v. 51); e tutti possono accedere alla Signora «amorevre» (v. 53), ricchi e poveri, purché si adoperino di «plasevre» (v. 56) ed «entre soe brace sian recomandati» (v. 58). La lauda del ‘200 si inscrive dunque, anche sotto l’aspetto della rappresentazione della regalità di Maria, in quella visione «umanizzata» della Madre di Dio che, con l’arte gotica, si è imposta in pittura. Ci sono, intorno alla Madonna, non più o non soltanto gli angeli; ci sono «tugi i afadighai» (v. 57) che in lei trovano «dolcezza e requie», ci sono «li tribulai» (v. 59), i «desperai» (v. 60) o, come dice Giacomino da Verona nella lauda citata (v. 89), «li viandenti e li peregrini». Maria è «consolatris», ricorda di nuovo il poeta Bonvesin (v. 59), è «speranza grande» (v. 60), in piedi di fronte al Salvatore (cfr. v. 61): lo è adesso (v. 61), ottenuta la piena «poestaria» (v. 68), per la sua maternità e la sua afflizione, a vantaggio di tutti «li peccaor» (v. 62). C’è sempre l’insegnamento, qui, alto-medioevale[34] e la mariologia della scolastica[35], ma inscritto in un clima domestico.
La «pietà» attribuita a Maria è lontana da ogni atteggiamento di sufficienza: non già perché sarebbe stato possibile vedere in lei un qualche sentimento di orgoglio, ma per il fatto che era ormai superata la concezione «pantocratica» della Madre di Dio. E a ciò contribuì indubbiamente, oltre alla tendenza sopra ricordata, soprattutto la spiritualità francescana. In effetti, riscontriamo precise note di affettuosità, sia pur sullo sfondo più generale della «cortesia» duecentesca, nel laudario di Giacomino da Verona, frate francescano[36]. L’epiteto di «nobel polcella» (vv. 1 e 43) è messo in rapporto con chi intende «lo so amor» (v. 4). A lei il poeta si rivolge «com a dona»: donna che attira, donna che ispira, donna che emana «aolimento» e «dolçor», profumo di cortesia (cfr. vv. 17 ss.). Ella che è «de tute le done… regina» (v. 13) emergendo fra le tante come nella migliore coreografia stilnovista, abbellisce lo «stil» e guida la «penna» del poeta (v. 6), così come, spargendo tutt’intorno il suo «odor» (v. 20), rinnova tutto il mondo che «par ken redola» (v. 100). Già in una lauda, anteriore ed anonima[37], nella quale la Madonna riceve attributi come «vigorosa, potente, beata» (v. 44), la sovranità è essenzializzata nella «bellezza» (v. 29), nell’esser «letizia de tutta la gente» (v. 41). Come successivamente in Giacomino da Verona, l’amorevolezza della figura regale di Maria è evidenziata dalla ripetizione di semantemi di questo genere: ben quattro identici, nella lauda anonima ricordata, senza contare quelli con la medesima connotazione. La «dolcezza» (v. 30) che deve sentire per lei ogni uomo la cui vita non sia «troppo ria» (v. 31), il «gustar» di lei (v. 31), sono altrettante conseguenze di quel rapporto affettuoso, per il quale essenziale la bontà della vita e l’imitazione dell’esempio offerto da Maria.
Quando Giacomino da Verona indica esplicitamente la «sovrana» (v. 26) maestà imperiale della Madonna, rivela un quadro di costume da alta corte, poiché ella si «encorona», circondata dagli angeli su cui tutti ella é «exaltaa» (v. 26), «d’or de saphyr e d’ariento / claro più ke stella diana» (vv. 27-28). Da notare che l’espressione «Dïana stella lucente» è già della anonima lauda sopra ricordata, quindi più antica ed ereditata da San Bernardo. Ma soprattutto da notare è il clima di intimità del corteggio mariano nella lauda di Giacomino, che richiama più una festa gioiosa di paese che non una scena imperiale. Più che una «teoria» di notabili, qui appare una processione di paesani; il paradiso, dove regna Maria, sembra un praticello fiorito di una villa signorile (vv. 65-72):
Dond’eo digo ke per vui se contreço
lo paradis, quel aolente verçer,
e çascaun ke abita en quello regno,
e cuncti e marchis e done e cavaler.
Li quali, Madona, de vui a tanta festa
ke per letitia igi canta una cançon.
Ke lo Segnor a la vostra maiesta
À so(to)posta ognunca nation.
La sovranità di Maria su ogni comunità, nazionalità e gente è ritmata dall’armonia popolare del canto, la maestà è letizia, così come il paradiso è un giardino.
L’incoronazione di Maria desta la «meraveja» degli angeli, e segue, in Giacomino da Verona, la tradizione mariologica che, interpretando simbolicamente la Scrittura, si canonizza nella liturgia; «Chi è costei che ascende», assunta al «talamo celeste, in cui il Re dei re siede in trono stellato?» (v. 37). Ma la connotazione di questa sovrana è di esser «dolce»[38]. Questo aggettivo si trova nelle laudes, attribuito a Maria come «madre»[39], come «donna»[40], come «regina»[41], ed è esso, a nostro avviso, a indicare la natura del personaggio, nei suoi diversi aspetti. Tale natura è dunque la dolcezza; tale è l’essenza di colei che svolge il ruolo della maternità, della femminilità – intesa, duecentescamente, come fattore di interiorizzazione e di elevazione -, e della regalità – nel senso dell’«avvocata» e «tutrice».
L’interpretazione secondo cui le funzioni di Maria, interdipendenti fra loro, trovano il significato comune ed essenziale nella dolcezza è deducibile dal testo letterario. Ad esempio, la figura della «madre» è presentata intrinsecamente unita all’amabilità della donna, tanto che, dice la lauda anonima sopra indicata, ogni uomo dovrebbe rifiutare «tutto ‘l mondo, per te». Ancora, la «donna» di Giacomino da Verona ad esempio segue subito l’espressione «tanto si ( = sei) bella!», ma è subito seguita poi dal pensiero della «tutela» e della intercessione presso «el Fijol» (vv. 46-68). Questa «domina» è, ovviamente, potente; ma «anche bella!». Ed è «bella», ma in funzione amorevole. Il termine «regina», ad esempio in Bonvesin, si dispiega nell’immediato prosieguo, nella lauda citata, attraverso il processo di amore per «li soi amisi», cui corrisponde la «devozione» di questi nei suoi confronti[42].
Le conseguenze, dal punto di vista devozionale, sono importanti. I testi rivelano il senso di questa «dolcezza»: è la «pietà», l’amorevolezza compassionevole. Il concetto della «pietate» domina infatti la dimensione, anche «regale», della Madonna delle laudes.
Una lauda bergamasca definisce chiaramente Maria «Regina», «dona de pietad»[43], ed una lauda bolognese indica la natura di questo potere nell’attrarre Dio stesso ad incarnarsi nel seno di lei, la cui grandezza è misurata dal poter contenere in sé colui che i cieli non comprendono (vv. 36-38):
Vencisti Santo Cristo onnipotente
che si chiuse nel to ventre,
che in cielo e in terra non capia[44].
Se il concetto di potenza è legato alla funzione materna, innanzitutto nei confronti di Dio, del Verbo incarnato, l’appellativo di «regina» introduce la dinamica dell’«umilidad» umana, ha cioè un rapporto con la condizione degli uomini. Maria non umilia nessuno, è una «regina» che non affligge, ma che neppure concede a nessuno di insuperbirsi. Maria non ammette la prevaricazione. Ella fa, cortesemente, «grandi doni»[45]: ma ciò è opera esclusivamente dell’«amor» suo che mai ci abbandona. E, il suo, è un amore innanzitutto verso Dio. Da qui, la fiducia, nelle laudes, e l’abbandono in lei; ma non senza la consapevolezza che, come vedremo, è indispensabile imitare la vita virtuosa di tale regina e «donna».
Uno sguardo particolare è rivolto all’ultimo giorno, «quando veniarà ol dì de la sententia»[46]. Maria si troverà al suo posto accanto al giudice, con la funzione di «advocata»: perciò, la preghiera che ella «sie denanzi al nostro Seniore»[47], perché ella ha, per grazia e come mediatrice, un titolo, per così dire, alla pari, comunque del tutto privilegiato. Perciò, «pregànte che tu ne perdoni / tutta la nostra villania»[48], dice coraggiosamente e arditamente una lauda anonima.
Un motivo, che compare con insistenza, per cui la Madonna è vista sicura difesa degna di affidabilità, è la sua esperienza dolorosa. Sembra che la sua «cortesia», di cui ella è esemplare principe e nella cui sublimità è fatta consistere fondamentalmente la sua regalità, tragga a sua volta ragione dal dolore. Anche nella sofferenza, Maria è stata tipica. Dichiarando ad esempio Maria la «speranza / da cui viene consolanza», Garzo dall’Incisa pone il rapporto tra la «gioia ed allegrezza» che è Maria per il mondo, e il «tuo dolor» (di Maria). Se prima abbiamo parlato di reciprocità di affetto, qui possiamo parlare di reciprocità di dolore: il fedele suddito, «cliente» e figlio capisce e percepisce il forte patimento della Madonna, dal quale appunto egli trae motivo di fiducia e garanzia per i propri bisogni spirituali[49].
Dal pensiero dell’addolorata, intesa qui come fondamento della regalità, nasce la convinzione, profondamente teologica e cristica, della «sientia» di Maria, come si esprime una lauda bergamasca citata: la Madonna «sa», perché la sua comprensione deriva dal dolore. In Garzo dall’Incisa questa sapienza è messa diffusamente in relazione con la passione di Maria:
Quando tu ‘l vedisti morto
nel(la) croce, ‘l tuo diporto,
la speranza fo conforto,
di te, donna cognoscente.
La definizione di Maria quale «arca di dottrina», nel citato poeta (vv. 63 ss.) non ha molto di intellettualistico; essa è una conoscenza morale, di vita, posta a servizio dell’uomo, tale che la rende valida nell’«avvocatura», sia nell’ultimo giorno sia giorno per giorno in ordine alla persuasione, discreta e potente insieme, della penitenza[50].
La pienezza di grazia di Maria è connessa alla capacità di compatire pietosamente l’uomo nel suo dolore: dolore che, per la cultura medioevale, non è solo, né tanto, quello fisico, ma anche e soprattutto quello morale, quello del peccato, come afferma ad esempio Jacopone da Todi[51]. Tale compatire si esercita non solo nel perdonare, o nel difendere dalla dura sentenza, ma prima di tutto nel convertire e nell’indurre ad una vita meritevole, degna della «regina» stessa. Perciò, come anticipavamo, Maria, regina «pietosa», è indicata come modello di santità. Ciò è sottolineato ad esempio da Garzo dall’Incisa, il quale enuncia anche il meccanismo teologico della santità, primariamente di Maria e quindi di ogni suo fedele suddito e cliente. La Madonna ha posto le basi della sua virtù e regalità credendo al messaggio evangelico e custodendo il «saluto» angelico con la «grazia fervente» (vv. 15-18). Con ciò, ella ha confermato la nostra fede perché non fosse perdente (vv. 31 ss.).
Con una religiosità più etica di quella del futuro Petrarca, il mondo duecentesco guarda alla Madonna per ottenere, sì, il pietoso intervento salvifico, ma, prima ancora, per seguirne l’esempio. Ed è infatti questa l’autentica disposizione che fa ben sperare l’aiuto nel giudizio, il conforto nella debolezza, secondo la famosa esortazione fondamentale del teologo San Bernardo: «non dimenticare l’esempio della sua vita»[52]. Ed è questa la «pietanza» che anche la Madonna di Jacopone da Todi invoca per i peccatori: perché la «benignitade» consiste nel far «ritornar a buona via / gente, ch’è senza furore»[53]. [Francesco di Ciaccia]
[1] De ve salve, virgena Maria, vv. 20-24, in E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, II, Città di Castello 1889-1912, p. 456.
[2] De quodam monaco qui vocatur frate Ave Maria, in G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960.
[3] De ve salve, virgina Maria, cit., v. 28.
[4] Ibidem, v. 31.
[5] Ibidem, v. 29.
[6] Ibidem, v. 33. Molto comune il termine, cfr. comunque l’«avocata» della anonima Stava la Vergine sotto de la croce, vv. 6 e 46, in G. Contini, op. cit.
[7] Ave, verzene Maria, v. 16, in Regola dei Servi della Vergine gloriosa, Bologna 1281, pubbl. da G. Ferrero, Livorno 1875. Cfr. anche «Laudi e devozioni della città di Aquila», in E. Percopo, Giornale storco della letteratura italiana, IV, p. 156.
[8] Cfr., es., la lauda bolognese Ave verzene Maria, cit., v. 2. Per la cit. successiva, v. 7.
[9] Ibidem, vv. 21-22.
[10] Cfr. Paradiso, XI, 54. Si riscontra nel ‘200 anche in Garzo dall’Incisa: «chiara stella d’oriente».
[11] Lauda LXXXVII, v. 7, in Raccolta di rime antiche toscane, III, p. 352.
[12] Vergine gaudente, vv. 5 e 6, in G. Contini, op. cit.
[13] Cfr. il concetto stilnovistico di «tanto gentile».
[14] Lauda bolognese Ave, verzene Maria, cit., v. 26.
[15] Lauda LXXXVII, De beata virgine Christum tenente in gremio, in «Rime genovesi», N. Lagomaggiore, Archivio glottologico, II, p. 266.
[16] O Vergin più che femina, ed. 1490, rist. dal Ferri, Bari, e dal Papini, Firenze, in G. Marotta, Lirica Mariana, Torino 1932, p. 24.
[17] «Fraticelli» e «beghini», dopo la più tarda condanna di Giovanni XXII con la bolla Quorundam exigit, 1317.
[18] Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo, Milano 1978, pp. 153.
[19] Il testo in Inni, a cura di G. Cammelli, Firenze 1930, ripubbl. in Donna del Paradiso, a cura di M. Escobar, Torino 1962, pp. 28 ss.
[20] Il testo in E. Monaci, op. cit., II, p. 457.
[21] De institutione virginum, cap. 7.
[22] Testo in G. Contini, op. cit.
[23] In Nannucci, Manuale della letteratura italiana del I secolo, Firenze, vol. II, p. 111. Cfr. F. Ernini, Lo Stabat Mater e i pianti della Vergine, Città di Castello 1916.
[24] Stimulus amoris, in Mistici del Duecento, a cura di A. Levasti, Milano-Roma 1935.
[25] Ibidem: «piaghe assumate » è un’espressione tanto psicologicamente pregnante quanto teologicamente forte per la connotazione «dell’assunzione» partecipativa della sofferenza salvifica di Gesù.
[26] Cirillo Alessandrino, Homeliae, PL LXXVII, 992.
[27] Tra la fine del ‘300 e gli inizi del ‘400, con Giovanni Sercambi, tale usanza entrerà nella novellistica (cfr. Novelle inedite, a cura di R. Reiner, Torino 1889).
[28] Laudes B. Mariae V., cit., in G. Mariotta, op. cit., p. 31.
[29] Secondo la teorizzazione a partire da Guido Guinizzelli, Al cor gentil reimpara sempre amore.
[30] Orationes et meditationes, ed. Edimburgo 1946.
[31] Cfr. il perfetto esempio di ciò in Dante, Vede perfettamente onne salute.
[32] Cfr. le rispettive caratteristiche nella poesia stilnovista, e particolare in Tanto gentile e tanto onesta pare.
[33] Lauda a Maria, v. 80, di Garzo dall’Incisa, in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, op. cit.
[34] Cfr. Giovanni Damasceno, Octoecus-Paracletus, a cura di G. Giovannelli, Roma 1885: «speranza, protezione e aiuto delle umane genti».
[35] Cfr. Tommaso d’Aquino, Expositio salutationis angelicae: «ogni speranza di vita e di virtù», che cita Ecclesiastico 24, 25, interpretando analogicamente la Sapienza come Maria.
[36] Le Laudi della Vergine sono state pubblicate dal Mussafia in Sitztingsberichte der Kaiserl. Akad. Der Wissenschaften, aprile-maggio 1864, pp. 191-196.
[37] Venite a laudare, v. 40, in Poeti del Duecento, cit.
[38] Antifona delle Lodi, Ufficio dell’Ascensione.
[39] Come nella lauda Venite a laudare, v. 34, e in altre, es. nella lauda bergamasca citata, v. 5: «dolz amor».
[40] Cfr. Venite a laudare, cit. v. 34.
[41] Cfr. Giacomino da Verona, Laudi della Vergine, cit., v. 45.
[42] Cfr. Bonvesin de la Riva, Eo Bonvesin de la Riva, cit. v. 49.
[43] De ve salve, virgena Maria, cit., v. 7, in E. Monaci, op. cit., p. 456.
[44] Regola dei Servi della Vergine gloriosa, cit. Il concetto è quello liturgico del «quem coeli capere non poterant, tuo gremio contulisti».
[45] Ibidem, v. 12.
[46] De ve salve, virgena Maria, cit., v. 24.
[47] Ibidem, v. 25.
[48] Venite a laudare, cit., vv. 14-15.
[49] Garzo dall’Incisa, op. cit., vv. 67 ss.
[50] De ve salve, virgena Maria, cit., v. 23.
[51] Cristo speranza mia, in Tresatti, Le poesie spirituali di Jacopone da Todi, Misserini, Venezia MDCXVII: «Ch’à vergogna et à dolore / della sua grande offansa», vv. 9-10.
[52] «Homilia II super ‘Missus est’», in Xenia Bernardina, Vienna, 1891.
[53] Cristo speranza mia, cit., vv. 41 ss.
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