1983, IF, La missione inutile della semplicità
La missione inutile della semplicità francescana nel fra Galdino manzoniano, ne «L’Italia Francescana», 1 (1983) pp. 5-20.
Testo dell’Articolo
La missione inutile della semplicità francescana nel fra Galdino manzoniano[1]
Il religioso «non vuol solamente de’ poveri sollevati,
ma degli animi […] pazienti».
- Manzoni, Osservazioni sulla Morale cattolica, cap. XV,
«Sui motivi dell’elemosina».
«Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno di Agnese si addolcì». Dalla prima menzione ne I Promessi Sposi il cappuccino appare, essenzialmente, l’uomo la cui missione merita ed ispira fiducia per la sua autorità morale collocata al di sopra di tutti, sia di Agnese sia, dopo, di Don Rodrigo. Con ciò, non è deducibile un intrinseco rapporto ideologico, «schiettamente cattolico», tra valore e «rendita» denunciato da A. Gramsci: «niente è in loro [Cristoforo, ecc.] dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo, [poiché] l’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana[2]. Al contrario, non solo, nel rapporto ecclesiale, per il Manzoni «le gerarchie della cultura non contano»[3] – e così del censo –, ma, se non altro nel padre Cristoforo, l’attitudine stessa è opposta all’«atteggiamento gesuitico verso gli umili»[4], o comunque «enfatico e chiesastico»[5]: il cappuccino è «amico del popolo»[6], «uomo come noi» (non «canonizzato»)[7] e vicino «alla nostra umanità»[8], perché il religioso non solo ha «compassione del povero, ma gliel’ha per amore di Dio» (Osservazioni sulla Morale cattolica, cap. XV).
Tuttavia non sfugge che il Cristoforo manzoniano si imponga come un «eroe solitario»[9], come forza-«idea» del sacerdote[10], «individuo speciale che trovasi consacrato dalla sua missione»[11]: anche se ciò non significa «astrazione»[12] propria dei simboli viventi [che non sono] uomini in carne ed ossa»[13].
«‘Oh fra Galdino!’, dissero le due donne» al vederlo. A differenza di prima, qui c’è l’immediatezza della familiarità. Se Agnese va subito, per associazione, all’«elemosina», il «Va a prendere le noci […]» non tende, come sembra all’apparenza, a mantenere Galdino come terzo escluso: proprio la connessione frate-elemosina rivela, nell’esclamativo iniziale, la sintonia esistenziale per la quale le «povere» donne e il frate «povero» si incontrano. Nella dinamica psicologica, Cristoforo interviene su Agnese come determinazione normativa[14], per quanto non «di casta, pur nella sua forma religiosa cattolica»[15] – l’ha già superata, lui, con la terribile «umiltà» cappuccina![16] – ma di «araldo di bene e di giustizia […] anche quaggiù»[17], conforme ai principi esposti dallo stesso Manzoni[18]. Galdino, invece, si determina gratuitamente, e in rapporto alla «gratuità». Se è ingenuo[19] l’annuncio: «Vengo alla cerca delle noci», in cui alcuni hanno individuato la «frettolosità» dell’egoista[20], è proprio in questa ingenuità che vien fissato l’ingresso di Galdino nell’universo più «umano» che ci sia: quello del bisogno.
Se la «costante disciplina […] esercitata sopra se stesso»[21] rende il «padre» vicino alla «vita, diremo, intima dei poveri»[22], controllandone i sentimenti prevaricanti e perciò nocivi alla promozione della storia, fra Galdino non si avvicina che come un qualunque povero. Egli è solo una presenza, è «inutile» e «semplice»[23]. Apre la bocca solo per dire cose inopportune. Quali? Chiede: «Cos’è stato? […]. Si doveva pur fare oggi […]» (cap. III). Ammessa pure la «curiosità», essa non spiega – il Manzoni conosceva i Cappuccini![24] – il passaggio dalle «preoccupazioni […] della questua a queste più leggere della ciarla e del pettegolezzo»[25], ma spiega il permanere del frate, «semplice», nell’attitudine «fraterna», dell’uomo di «casa». E infatti, se Agnese non ne fosse stata impedita dalla figlia, la sua «risposta sarebbe probabilmente stata diversa», assicura il Manzoni. Nella convinzione manzoniana, i «ministri del Vangelo […] rappresentano sempre l’angoscia del loro (dei poveri) stato»[26]; e l’istinto di Agnese denuncia un rovesciamento di posizioni, da cui appare l’«inutilità», e il suo senso, di Galdino come ministro speciale del Vangelo. Agnese, rammaricandosi, con naturale disappunto materno, che la figlia non si sia confidata con lei prima ancora, o perlomeno nello stesso tempo, che con il «padre» Cristoforo, tradisce l’alterità del cappuccino, vissuto come uomo di eccezione, anche se «banditore […] della verità della comunità di fede»[27]. E la stessa Lucia, proprio nel chiedere, in anticipo, alla madre il silenzio, tradisce la coscienza che il frate è «fratello», nel quale, semplice e idiota, non si suole immaginare che una «moralità umana»[28]. Nel suo pudore, Lucia poteva trattare del suo problema solo con il «padre» come ministro, ed ella «amava il frate (Cristoforo) come un padre»[29].
Cristoforo è scolpito (cap. V) «sulla soglia» della casa, «ritto»: immediatamente egli capisce qualche dramma. Galdino compare con un «piccolo inchino famigliare» (cap. III), entra ed esce con le «noci»[30]. Ma notate: quest’uomo, che quasi inesorabilmente rischia l’inopportunità, irrompe nel mezzo della vita umana, e dei poveri, con la più ingenua delle attenzioni[31]. Poiché il suo irrompere è di pura disponibilità. Il fratello cercatore non distingue fra «ricchi e poveri », non solo perché il suo punto di vista è quello del bisogno, ma anche perché colui che dà e colui che riceve sono, nella ideologia autenticamente francescana, insieme e al contempo ricchi e poveri, l’uno e l’altro. Ambedue, sono l’oggetto del dono da parte di Dio, e sono il soggetto dell’umile servizio per amore di Dio. L’offerente, per amore di Dio, si fa povero; il richiedente, per l’amore di Dio, è ricco. In questo senso il fratello francescano realizza, in maniera drastica, l’archetipico atteggiamento del povero di Assisi: «[…] tutti […], noi frati minori, servi inutili, umilmente preghiamo e supplichiamo […]»[32].
Se non sentirsi umiliato fra gli ignoranti, e non sentirsi superiore fra gli ignoranti, è l’umiltà del cappuccino, il fratello cercatore neppure è capace di sollecitare un consiglio dagli ignoranti. Incalzato dalla trepidante ansietà di Agnese, nel colloquio in convento, fra Galdino non si offre, neppure adesso, come risolutore di nulla. Egli è, francescanamente, il servo inutile: cioè, il servo disposto ad ogni servizio, non ultimo quello dell’essere inutile. È questo il valore della «stupidità », da alcuni commentatori malamente definita, dell’assenza di una scienza teologica, giuridica, ecc, nel fraticello manzoniano. Ma l’inutile Galdino incalza, contro Agnese (cap. XVIII), per offrire il ragguaglio più utile al problema della «povera» donna. Il «tipo del frate volgare e ignorante»[33], «cortese ed affabile, (sì) ma insensibile»[34], sembra aver capito l’urgenza di una disgraziata. Gli «uomini puri hanno sovente un meraviglioso intuito delle anime, superiore a quello degli spiriti sagaci e sapienti, ma complicati dagli eccessi d’uno psicologismo […]»[35]. Non lo affermiamo per pregiudizio, ma perché è solo dopo il «pianto» di Agnese che il fraticello si sofferma a prospettarle l’alternativa di altri «padri», i quali sono, indistintamente per il fraticello «imparziale» e davvero «povero» in senso fraterno, tutti quanti «pieni di carità e di talento», come nota acutamente, con una punta (però) di sufficienza intellettualistica, un indulgente critico[36]. È grande, anche in questo particolare, l’ingenuità del fratello che, fedele allo spirito tutt’altro che cretino di Francesco d’Assisi[37], considera i propri fratelli con la stessa generosità e limpidezza: messaggio tra i più decisivi del Fondatore[38].
Notate ancora: soltanto dopo l’impazienza di Agnese (cap. XVIII), il frate conclude: «Allora, bisogna aver pazienza». Ora, se il «nostro linguaggio è l’espressione della nostra coscienza prima ancora che del nostro ingegno»[39], la frase non costituisce solo accettazione di «inutilità», ma anche offerta di servizio, la quale, umilmente, viene poi completata ed integrata dal prosieguo: «E se […], il convento è qui che non si move». Lo stupido fratello, che si offre tutto al servizio, ma escludendo per sé tutta la gratificazione – così umana! Non è, quel frate inutile, eccezionale? –, nel dichiararsi «servo inutile»[40] è già fuori dalla struttura psicologica del «serafico dell’avarizia»[41], quale lo hanno visto, con poca seraficità, alcuni commentatori nel suo: «Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell’olio» (cap. XVIII). Ulteriore riassunzione della propria «inutilità»: «pochi si sottraggono al fascino degli splendori»[42].
Sì, è vero. Pochi. Pochissimi. Anzi, nessuno. Il frate cappuccino non ne ha neppure la tentazione. E non per «mediocrità»[43]. Perché, fuori da tale coscienza dell’«inutile», nessun servizio, neppure l’assistenza ai lebbrosi o la battaglia contro l’usurpatore dei diritti inviolabili dell’uomo, battaglia condotta a viso aperto e scoperto, ha un valore per la promozione finale della storia (lo ripetiamo): se non nella coscienza del servizio «inutile»[44]. Perciò il finale del Galdino manzoniano si riallaccia, idealmente, e bene, alla propria presentazione iniziale: «Vengo per le noci».
Cristoforo è l’apostolo che mette a servizio la propria capacità organizzativa «mirabile e potente»[45] (che non è dei Fioretti), la sua «saggezza maturata nella riflessione»[46]. Galdino, frate minore delle origini, mette a servizio il proprio «candore»[47], con semplicità apparentemente stupida: «provavano (i frati minori) piacere non nella grandezza, ma nelle cose più piccole», dice uno che conosceva i francescani[48].
«Afflitto ma non scoraggiato»[49], padre Cristoforo ha comunque sempre «qualcosa d’ispirato […], predicatorio»; Galdino, trattato da Agnese come un inutile, non cede. Il «perdono» di padre Cristoforo, che si pone nel romanzo, secondo alcuni, come «ufficio e sentimento principale se non esclusivo»[50], nella «forza evangelica […], straordinariamente accresciuta» dalla «provocazione»[51] come dal vivido «contatto con la morte»[52] – e ciò smentisce l’«astratto dovere» cui obbedirebbero i «grandi» cattolici manzoniani[53] –, ha il pregio dell’eroicità. Quello di Galdino, appartiene alla quotidianità: non glorifica. Esso è alimentato nel deludente nascondimento, che non fu il solo D’Annunzio, ne Le faville del maglio, a non saper apprezzare. Lo «spirito mite e dominatore», che il Momigliano esalta giustamente nell’uomo Manzoni[54], è soprattutto in un frate agli apici dei «pochi spiriti sereni»[55], che la condizione «umile» fa assurgere ad esemplarità essenziale.
A Galdino è stato concesso – da alcuni con malcelato paternalismo – il merito dell’obbedienza: «[…] la disciplina fratesca, l’ubbidienza, è vissuta con una perfetta pace dell’anima e della mente»[56]; il frate «non avrebbe mai pensato ad avere una curiosità del genere (circa il ritorno di padre Cristoforo). […] Lo spirito di fra Galdino vive in una trascendenza assoluta […] e non intende il linguaggio delle passioni e delle curiosità mondane»[57]. Appunto. Ma tale «trascendenza» interiore è quella senza la quale la «storicità» di uno stesso Cristoforo[58] – al quale, guarda caso, il Manzoni, e non soltanto per l’economia della trama, fa compiere una «dis-utile» obbedienza! –, sarebbe improponibile, come assurda la semplicità di «fanciullo» di un Innominato o di una Lucia[59].
Tutt’altro che fra il mondo delle afflizioni e il mondo della noncuranza – più o meno egoistica, e/o disincarnata –, il contraddittorio fra Agnese e Galdino è tra il mondo che cerca la pace, e il mondo che la pace ce l’ha – quella pace, che è indissociabile dalla giusta lotta, come il Manzoni insegna attraverso Cristoforo. La speranza è il fondamento ultimativo della pace. Il «padre» dice parole di speranza, e la speranza si realizza nel finale: «allegrezza raccolta e tranquilla». Il «frate» è presenza di speranza. Soltanto. Che l’Autore non abbia assegnato al personaggio un risultato pratico, ciò ci conforta: nell’umile «concentrazione tranquilla»[60] del cercatore inutile, si incarna la fiducia non relativa a qualcosa. Se ha un senso la speranza proposta, in sostanza, dal romanzo[61], essa ha le sue radici qui, nella esistenza dell’assoluta speranza.
L’annuncio del dono
«Il Signore sia con voi». Su questa frase, stereotipa, i commentatori si sono soffermati poco. Essi hanno colto la «macchia», che mirabilmente l’Autore tratteggia con «tante minuzie» (Riguntini-Mestica), segno della «psicologia del personaggio […], uomo dappoco, [che] tiene la imboccatura [della bisaccia] attorcigliata e stretta con tutte due le mani […] sul petto. E il suo non è nemmeno un grosso peso. È l’egoismo del convento», ecc.[62] A parte il fatto che non si capisce bene dove il Manzoni avesse potuto far tenere al frate le mani, e «strette», stante che costui aveva davanti l’«imboccatura» del sacco, e, dietro, il peso del medesimo, e a parte che tale posizione era in genere abituale, come risulta dall’iconografia e da molte biografie, ai fratelli – sia con bisaccia, sia senza –, la «macchia» non inizia qui, ma nel «picchiettio all’uscio» e nel «sommesso ma distinto Deo gratias», e si completa con il «rimaneva nella medesima positura». È qui la psicologia del cercatore, il quale non va alla questua per una ritualità astratta, ma per la necessità del convento (e si badi: non sua personale, ma dei fratelli. Lui, il «frate» questuante, non è il primo a goderne!). La forma esterna è del mendicante, come già in Francesco d’Assisi[63]: il quale continuò a mendicare anche quando non era più persona «sconosciuta e disprezzata», ed arrivò a prospettare la dimensione dell’umile richiesta al «cardinale e ai suoi cappellani»[64].
Nell’intuizione manzoniana, la figura di Galdino non si annuncia nell’untuosità strategica: il rozzo fratello non ne è capace. Inoltre, l’ingenuo ben sapeva che qualcosa, più o meno, le due donne gliel’avrebbero dato. Ed egli era loro «famigliare». Il suo spirito è di quella «minorità» per cui Francesco voleva che i frati fossero «umili e rispettosi» con la gente, «piccoli più che tutti gli uomini del mondo», minori «con l’esempio e con i fatti»[65].
È così che «venne avanti», «subito» dopo «inchino», le «due mani sul petto». Le due mani portavano, stretto, il dono, non l’avidità. Il dono da ricevere, il dono da dare.
Prima di tutto, da dare; lui, per primo. La semplicità, appunto. L’affettazione non appartiene al francescano. Uno dei più straordinari risultati, la semplicità non è una tecnica di mosse: è il risultato del sentimento per cui nessuno è vissuto come inferiore, e nessuno è vissuto come superiore. L’encomio espresso dal Manzoni ai Cappuccini (cap. III) in occasione di padre Cristoforo è anticipato dall’ingresso, nel romanzo, di Galdino: questi ne è la dimostrazione. Per lui non sarebbero occorse parole: bastava il gesto; era loquace il silenzio.
L’Assisiate accosta la «semplicità » addirittura alla «regina», la «sapienza», come sua «sorella», e dice che essa confonde «ogni sapienza di questo mondo e la sapienza della carne»[66]. Se il Manzoni fa dire al frate, prima di ogni altra cosa, il Deo gratias, è perché essa è una abituale formula; ma l’Autore sa che, per un ignorante fraticello che non ne coglie il fatto linguistico, grammaticale, ecc., essa è coscienza che solo Dio merita il ringraziamento. «Ogni sentimento verso qualunque creatura», dice il Manzoni, si riferisce «all’Autore di tutte» (Osservazioni sulla Morale cattolica, cap. XV). «Agli amici si mostra riconoscenza», rammenta il Celano per bocca di un ministro di san Francesco; ma il «contraccambio» è da Dio, assicura l’Assisiate[67].
Questo zotico fraticello, che sta nella schiera dei «poveri di spirito» manzoniani, lontano da un Cristoforo o da un Borromeo, come dice il Carducci[68], annuncia la pace. Di Cristoforo, l’Autore tace la patria forse per collocarlo nella idealità[69]. Ma il frate Galdino è nella realtà: il logoro annuncio di pace non mortifica la vita dei personaggi manzoniani nelle forme del «tempio […] e [dell’] altare»[70]: questo «saluto» da «altare» in realtà è il solo che rifonda e ricostruisce, nei fatti, la giustizia reale nella storia. E ha anche costruito, nel rapporto con il prosieguo del quadro galdiniano, una delle poetiche pagine dell’artista lombardo[71].
Sulla natura e sul valore di quel saluto – sul quale riterremmo opportuna una indagine specifica –, qui osserviamo soltanto che Francesco lo pone in rapporto ad una «rivelazione» fattagli dal Signore, in parallelo solo con la «forma del santo Vangelo»[72]. Quello di Galdino non è un frettoloso («[…] appena scambiato […]») «saluto di religione»[73]: esso è invece tutto il dono del frate, che va alla «questua».
Galdino, «diritto» nella sua immobilità vicino alla porta, riproduce esternamente l’ideologia della sua «missione»: l’elemosina non è ingiungibile. Essa, è solo per amore. E non ha prezzo: il «prezzo» è pagato da un altro. Come il dono del pane viene solo da Dio, ma attraverso colui che serve la giustizia di Dio, così la ricompensa passa attraverso colui che è servito per amore. Ma se il ricevere (l’elemosina) non è garantito, è garantito l’augurio: dare la pace. Nessun fratello cercatore, per il fatto di non ottenere l’offerta, rinuncia ad offrire la pace, appena gli vien possibile: qui, sta la contraddizione allo stesso prevaricare, nella sua profonda radice, oscura, quasi insondabile, «omicida fin dall’inizio»: il dare cioè il bene (e la «pace») in assoluto, puramente, di per sé.
La questua francescana si inscrive nella radicalità della giustizia. Quando Galdino, in risposta (si badi: «in risposta») ad Agnese fa sapere che il lavoro della questua va «poco bene […], poco bene» («Le son tutte qui»), non tradisce denunce: esprime una confidenza a chi capisce di che sale sappia il pane quotidiano[74]. Con semplicità. Le sue «curiosità», che alcuni credono il Manzoni abbia voluto insinuare nel frate, il cercatore, stanco, la sera, se le dimentica prima di dormire[75]. Cordialità per cordialità, Agnese ha un’esclamazione di rammarico («Ma!»); non direi di dolore. Ma in quel tentativo di consolarlo («le annate van male») non c’è repulsa dell’egoista: c’è affetto fraterno – e la donna ha anche ben altro per la testa! – Nel vocativo: «fra Galdino!», c’è l’accoglimento casalingo: qui il Manzoni ha elevato, in modo gigante, l’immagine ieratica del ministro del Vangelo, quale un Cristoforo, alla semplicità del Vangelo che è servito in famiglia.
«E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? ». Evidente: l’elemosina. È tutta palese, qui, l’«avidità del convento». Solo che – ma guarda un po’! – c’è anche, idealmente, il miracolo delle «viti» narrato dai biografi dell’Assisiate[76]. Poi, la «grossolanità» delle «poche e immutabili idee», denunciata nel seccante e idiota cercatore[77], gli fa raccontare una storiella che Agnese chi sa quante volte si è dovuta sorbire. La storiella è il «domma» del frate, e dice una cosa molto semplice: non è la strategia dei potenti ad assicurare la giustizia nel mondo, ma lo è la giustizia in se stessa, che è per amore: una «giustizia che non manca mai»[78]. Il resto della storiella è arguzia contadina, diciamo pure interessata. Ma da ciò alla «malizia» c’è una distanza come tra l’idiota cercatore cappuccino e i dotti commentatori del cappuccino.
L’«idea fissa», poi, sottende che, se non dare attira la pena, il tenere riguarda qualcosa su cui non si gode un diritto. Però, il non dare è, per Galdino, nel diritto del possessore, come egli sa bene per esperienza. Allora, vuol dire che il dare è gratuito. Il diritto sulle cose non è portato da chi chiede, come neppure da chi possiede: il diritto è dunque al di là dei diritti giuridici. È il diritto di colui che impone il servizio scambievole per amore. Ora, l’astuta storiella è riassunta – guarda caso – dal Manzoni per bocca dello stesso stupido frate: «[…] poiché noi viviamo della carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo» (cap. XVIII). Nuda e cruda, è la summa della povertà francescana, del suo servizio, della sua socialità radicale. La popolare metafora del cap. III, «siamo come il mare», indica che il trattenere per sé è una rapina: contro, appunto, l’«elemosina». Se qualcosa, nella configurazione delle normative pratiche, è da dare e qualcosa da tenere, nella stupida «filosofia» galdiniana tutto è da dare. Tutto è da ricevere. L’un l’altro. Per amore.
Nessun sistema, nel mondo, è arrivato a questa radicalità di giustizia: e non perché qualcuno non abbia proposto la comunità dei beni, ma perché o la stessa comunità dei beni si colloca nella concezione dell’«elemosina», o risulta anch’essa, benché in forma diversa, una struttura, radicalmente, di possesso. Attraverso un Manzoni, che sapeva dell’«elemosina» francescana, Galdino ha espresso, ingenuamente, la «giustizia assoluta, contrapposta alla cosiddetta giustizia degli uomini», della quale i critici, da un punto di vista diverso, hanno fatto messaggero padre Cristoforo[79].
È possibile scorgere un «‘compatimento’ scherzoso verso le figure di uomini del popolo […] come fra Galdino»? o stabilire che «i popolani, per il Manzoni, non hanno ‘vita interiore’ […]», e che «essi sono ‘animali’ e il Manzoni è ‘benevolo’ verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali»?[80]. Perlomeno, ciò non vale per fra Galdino. Negare gli «alti pensieri» e i «grandi sentimenti», che sarebbero «solo in alcuni della classe alta, in nessuno [invece] del popolo»[81], a proposito di fra Galdino è vero: ma solo nel senso della modalità esteriore. Ora, è esattamente questa «bassezza», assegnata dal Manzoni al fratello laico, a convincere della serietà e della poeticità del pensiero manzoniano circa il valore dell’«elemosina» francescana. Cristoforo, lui doveva apparire un «Farinata e [un] Catone»[82]. Galdino, invece, no: comune fraticello quale egli era. L’«altissimo posto», nel romanzo, di Cristoforo[83] non sarebbe il posto, in se stesso, di un francescano – neppure a voler raccogliere tutte le eventuali coincidenze «storiche» con frati esistiti[84], o ad insistere sulla rinuncia di tutti i beni donati da Ludovico ai poveri[85] –, se la giustizia immanente dell’intuizione artistica non avesse legittimato, francescanamente, nel senso delle più antiche fonti storiche, il Cristoforo con il Galdino. Una volta che l’Autore ha messo nel romanzo, «così […] senza pensarci», senza «aver voluto rimettere in onore i cappuccini», ma solo perché essi gli «son parsi una forza viva e attiva in quei tempi» («Ora, non gli credo più utili alla religione»)[86], è stato coerente, poeticamente e ideologicamente: gli episodi galdiniani non sono, nell’economia del racconto generale, necessari. Ma muterebbe l’idealità reale dell’immagine francescana – perlomeno del Seicento, se non anche dell’Ottocento –, senza frate Galdino[87].
Se di «Cristoforo» – come dice un critico – ne sorgeva di quando in quando […]»[88] – e la simpatia del Manzoni, la cui concezione è nota, va al padre Cristoforo –, è anche vero che di frati cercatori ne sorgevano continuamente[89] a rappresentare il «reale» della vocazione originaria del francescano[90]. Fattosi frate non per «disgusto di una vita dissipata»[91] – fenomeno d’eccezione –, ma quasi per istinto, fra Galdino mostra nella quotidianità «quel ch’ei [preti e frati] sarebbero in obbligo d’essere»[92]. Il coraggio eroico è di pochi momenti – e il coraggio (con buona pace di don Abbondio) uno se lo può dare, almeno in qualche caso straordinario –, la semplicità uno non se la può dare, e non è di pochi momenti. Nella sua «missione» insignificante, il fratello non ha scelte. Non può disimpegnarsi, al limite, praticamente se non ideologicamente. Per questo, questuare o aprire la porta «vale cento di quelle vite» ambiziose, come dice il Momigliano a proposito tuttavia di padre Cristoforo[93].
Perciò, se un’«esaltazione dei Cappuccini» si dà, nel romanzo[94], essa non si attiene ai Cappuccini de I Promessi Sposi se non integrati da frate Galdino. Padre Cristoforo non è «un san Francesco travestito, o meglio trapiantato dal secolo XIII al secolo XVII»[95]: non un «assisiano»[96], e il Manzoni, «vagheggiando la figura del padre Cristoforo, non ha pensato n’eppur lontanamente a san Francesco, perché avrebbe tradito la sua profonda fedeltà al vero storico[97]. Con Galdino, il Manzoni ha presentato il «minore» del secolo XII[98], e, sotto questo aspetto, egli ha illuminato il cappuccino di tutti i tempi.
Non ci resta che concludere con una affermazione di Francesco Lo Parco, benché essa valga solo per il suo studio: «Dopo queste considerazioni, appare ben diversa la figura di fra Galdino, forse qual volle rappresentarla il Manzoni, a cui dovette certo riuscir gradita e simpatica, come gradita e simpatica riesce al lettore»[99]. [Francesco di Ciaccia]
[1] Analizzare il fra Galdino è un lavoro superiore, senza modestia, alle nostre possibilità: sia perché egli è un personaggio sul quale la critica offre avari, e a volte sommari, conforti, sia perché le ragioni dell’«inutile» cappuccino trascendono le nostre insufficienti categorie mentali. Per questo, egli, come «manzoniano», dà ansa a soggettive interpretazioni. Tentiamo solo, perciò, qualche semplice riflessione, che non ha né carattere di critica letteraria né natura di teoresi sociale.
[2] A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma 1977, p. 87. Il rilievo gramsciano sul cattolicesimo manzoniano può trovare giustificazione sul piano psicologico. Tuttavia notiamo che il fondamento della «riverenza» verso il cappuccino – del quale trattiamo – è posto dal Manzoni nell’essere il religioso «a tutto avvezzo»: «entra ne’ palazzi e ne’ tuguri», ecc. (cap. III). D’altra parte, la «riverenza» ai ministri del Vangelo è una tradizione che Francesco d’Assisi, non sospetto di «condiscendente benevolenza» – almeno, ciò sembra ragionevolmente sostenibile –, fortissimamente consegnò alla storia. Cf. A tutti i fedeli, VII, 33; Testamento, 10-11 e 15 (circa il clero). E che dire, allora, dell’«aristocratico» Alessandro Manzoni che attesta ad un Francesco Calandri, ad esempio, prete Somasco, il proprio «profondo e affettuoso rispetto» (firmato: «Devotiss.[imo] servitore»)? (Lettera del 12 febbraio 1847).
[3] A. Momigliano, Alessandro Manzoni, Milano, ed. del 1978, p. 217.
[4] L’espressione è di F. Crispolti, Nuove indagini sul Manzoni, in «Pègaso», agosto 1931.
[5] M. Sansone, L’opera poetica di Alessandro Manzoni, Milano-Messina 1947, p. 291. Sono, questi, giudizi sostenibili, solo che contraddicono la lucida presentazione offerta dal Manzoni nel cap. III sui Cappuccini, alla cui luce vanno «vissuti» gli atti e le parole nel prosieguo del romanzo.
[6] G. Gessi, Per non dimenticare i Promessi Sposi, II, Milano 1956, p. 36. Anche queste sono interpretazioni. Ci sembrano più attinenti alla suddetta rappresentazione.
[7] G. Santarelli, Il P. Cristoforo manzoniano nella critica, Milano 1971, p. X.
[8] L. Russo, Fra Cristoforo, in Dizionario letterario, Milano 1950, vol. 5, p. 357.
[9] G. Del Vecchio, I Caratteri dei Promessi Sposi, in «Rivista d’Italia», 17 (1914) p. 264 (cf. l’annotazione manzoniana: «[…] nessun si pensi che […] fosse un frate di dozzina […]»). Cf. anche G. Barzellotti, Preti, frati e monache nei Promessi Sposi, in «Domenica letteraria», I, 25 giugno 1882, n. 1, p. 1.
[10] Cf. M. Marcazzan, Le note manzoniane di G. Sclavini, Brescia 1942, p. 111.
[11] F. De Sanctis, Manzoni, Torino 1955, p. 66.
[12] Come invece afferma E. Janni, Personaggi d’autorità dei Promessi Sposi, in Scritti e discorsi letterari, Firenze 1921, p. 21 e passim.
[13] A. Zandonai, Una treccia nera ed una barba bianca, in Atti della I.R. Accademia degli Agiati in Rovereto, III, 14 (1908) p. 38. Per una sapiente interpretazione della figura «ideale» di padre Cristoforo, cf. G. Santarelli, op. cit., pp. 9-22.
[14] L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, III, Napoli 1872, p. 313. Egli vede in ciò un potere contro la «libertà».
[15] A. Gramsci, op. cit., p. 87. Cf. invece F. Crispolti, loc. cit., sul rapporto «popolo-religione» nel romanzo.
[16] Cf. ad esempio F. Foffano, Il Pane del perdono, in Settimana Manzoniana, Milano 1928, p. 140, che riscontra nel padre Cristoforo il «vero cappuccino». Cf. anche Vittorino da Toano, Profili cappuccini nei Promessi Sposi, in «Frate Francesco», Roma, 17 (1939) pp. 68: studio dal taglio divulgativo, tuttavia appassionato.
[17] G. Santarelli, op. cit., p. IX. Non è forse, anche «quaggiù», utile e salutare spegnere gli sdegni, quando si tratti di sdegni nocivi a sé, agli altri, alla storia, all’universo? Tali sono tutti gli sdegni, che possono escludersi senza che ne patisca la giustizia nel rispetto dei propri e dei diritti di tutti.
[18] «Chi in punto di religione crede la verità, e crede, per conseguenza, che gli altri debbano credere come lui, fa il migliore, il più felice, anzi l’unico dono e felice uso della religione», A. Manzoni, Opere inedite e rare, Rechiedei, Milano 1885, II, p. 491.
[19] «Non ce ne sarebbe bisogno, tutti lo sanno che è il frate cercatore e la bisaccia parla per lui»: L. Russo, Commento critico ad A. Manzoni, I Promessi Sposi, Firenze 1978, p. 59, nota a riga 356. Si tratta indubbiamente di una dichiarazione inutile, che però rientra nella ingenuità del fratello laico cappuccino. Ma, questo, non è un esempio di «ingenuità» sconcertante: al massimo, è quello di una ingenuità di chi non sa dire altro. Una ingenuità sconcertante è quella, invece, di un fratello laico del convento di Pesaro, il quale, intorno agli anni 50 di questo secolo, uscito di convento e, appena varcata la soglia della cancellata, investito da un’auto, – era inverno e c’era la neve –, alle scuse dell’autista rispose di esser lui, l’investito, il colpevole, perché «non aveva chiesto la benedizione del superiore per uscire». Ora, di fronte a questa davvero poco comune ingenuità che sottende una saggezza straordinaria, quella di Galdino è normalità.
[20] Anche il Russo, per altri versi ottimo interprete del Manzoni: «[il frate] si affretta a dire […]. […] non perde tempo a dichiarare le sue generalità» (ibidem). Ma quale senso egoistico ha questa dichiarazione, se appunto non «ce ne sarebbe bisogno»? se essa non accelera di un secondo l’elemosina? Per quanto ingenuo, un fratello cercatore non è così inconsciamente ossessionato da farsi prendere da una tale ansia. Dovrebbe essere puramente uno scemo, stante che il rimanere «diritto nella medesima positura […] ‘come una statua d’ottone’, per dirla con un antico […] finché non sarà decisa l’elemosina» – così sostiene il critico –, non è per nulla un mezzo per costringere all’elemosina. Più furbo sarebbe mettersi a sedere, magari con «ingenuità». Ci par tutt’altro, dunque, che «ottuso ed armato» (!), questo frate.
[21] G. Negri, Sui Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Commenti critici, estetici, biblici, Milano 1903, p. 94. A. Ferri, parla di «autodisciplina», Creature manzoniane, Ancona 1926, p. 91.
[22] G. Gadda, Fede e Amore, nel romanzo immortale – il Padre Cristoforo, Milano 1929, p. 57.
[23] Tale ci è stata tramandata la presenza di frati minori, anche dotti, tra i quali, ad esempio, morto il 30 settembre 1982, padre Osvaldo Marini, del convento di «Sant’Angelo» in Milano, docente di «lettura lineare della Bibbia», da noi personalmente conosciuto. Sembra strano come il fra Galdino manzoniano assomigli tanto a reali e viventi frati minori!
[24] Per la questione circa la conoscenza dei Cappuccini da parte del Manzoni, cf. G. Santarelli, op. cit., p. 147 (sui «documenti cappuccini» consultati). Più analiticamente, G. Santarelli, I Cappuccini nel romanzo manzoniano, Milano 1970: in un primo periodo, conoscenza occasionale (pp. 6-9 e 23-24); poi, in contrasto sarcastico (pp. 9-10); infine, rispettosa e, con alcuni frati, cordiale (pp. 11-15). Il Manzoni comunque conobbe sia la forma di vita dei Cappuccini (pp. 17 e 53-67), sia le loro Costituzioni (pp. 27-53).
[25] L. Russo, Commento, cit., p. 59, nota a riga 367.
[26] Osservazioni sulla Morale cattolica, cap. XV: «Sui motivi della elemosina».
[27] Con un’espressione di L. Russo, usata in altro contesto (Introduzione alle liriche e tragedie di A. Manzoni, Firenze 1945, p. IX).
[28] In relazione alla «morale» del romanzo, della quale si può discutere, l’espressione è del De Sanctis, La morale cattolica e i Promessi Sposi, a cura di C. Muscetta, Torino 1955, p. 242.
[29] D. Richichi, I Protagonisti dei Promessi Sposi, Messina 1905, p. 81. Oltre che fine psicologia, c’è, in tale angolazione di ruoli, l’opposto di quanto è stato detto da alcuni, che cioè il Manzoni abbassa l’ideale religioso per essere «poeta» (F. De Sanctis, Manzoni, Bari 1922, p. 36).
[30] Giustamente, L. Russo nota come il frate non abbia «altri ideali per il capo, se non le sue noci e la sua bisaccia » (in Commento, cit., p. 58, nota a riga 356). Il problema è che cosa ciò sottenda e comporti.
[31] Molto è stato tolto, liberando l’opulenza della nostra insaziabile società da questa franca ingenuità. Attraverso una manciata di noci, o di more, o qualche moneta, passa l’essenziale dell’elemosina, ed una parola ingenua, senza timori di chiacchieramenti: nulla «troppo basso, né troppo elevato» (cap. III).
[32] Regola non bottata, XXIII, 17-22, in Fonti Francescane (sigla FF), Assisi 1978, tr. Francesco Mattesini, pp. 120-121.
[33] F. D’Ovidio, citato in L. Gessi, Commento, cit., p. 71, nota 1.
[34] L. Russo, Commento, cit., p. 341, nota a riga 262: «innocente insensibilità».
[35] A. Momigliano, op. cit., p. 210, che lo dice di padre Cristoforo.
[36] L. Russo, Commento, cit., p. 343, nota a righe 309-310. Egli dice anche: «Può parere di una irritante stupidità questa digressione, e difatti Agnese comincia a impazientirsi. Ma l’obliosa imparzialità di fra Galdino […] eguaglia e sublima tutti i fratelli nella stessa utilità». Il senso dell’aggettivo «oblioso» è da intendersi nel quadro mentale della nostra nota successiva.
[37] «E dobbiamo onorare e rispettare tutti i teologi e coloro che annunciano la divina parola», Testamento, 15, in FF, tr. F. Mattesini, p. 132 (cf. anche ibidem, 10-11). Cf. la sintetica ma profonda esortazione della Regola non bollata, VII, 16. Se san Francesco non voleva che si «vedesse», da parte dei suoi discepoli, «peccato» nel sacerdote, il fratello laico francescano è troppo abituato a non «vederlo» perché non riesca semplice ed ingenua, totalmente, la sua «eguaglianza» nella stima e nell’affetto.
[38] Ciò non comporta necessariamente l’assenza di doti socialmente apprezzabili. È solo questione di spirito di semplicità, che però il fratello cercatore porta in sé quasi connaturato.
[39] A. Momigliano, op. cit., p. 217.
[40] Regola non bollata, XI, 2, in FF, p. 109.
[41] Citato da L. Gessi, Commento, cit., p. 73, nota 1.
[42] Osservazione acuta di A. Momigliano, op. cit., p. 195.
[43] Citato da L. Gessi, Commento, cit., p. 73, nota 1.
[44] Ciò è in opposizione al giudizio di «decadenza» espresso, a proposito, su I Promessi Sposi, da A. Moravia, Introduzione a I Promessi Sposi, Torino 1960, pp. IX ss. In realtà, il «realismo cattolico» manzoniano non è, come è dimostrato in fra Galdino, né decadenza né tradimento dell’arte.
Sui giudizi sull’«errore», o meno, della visita di padre Cristoforo a Don Rodrigo, cf. E. De Michelis, Poesia e morale in padre Cristoforo, in «Nuova Antologia», 100 (novembre 1965) pp. 313-334. Ammesso pure il «difetto» nella «passione» morale di Cristoforo, il problema è su quale premessa si fondi ciò che è «utile» e ciò che non lo è. La dimensione della scelta di Cristoforo non è l’operosità strategica, ma la «promessa di Dio», afferma G. Negri, op. cit., pp. 101 e 109. «Alla lontana», ciò che momentaneamente è inutile può dimostrarsi il contrario, e viceversa (G. Marafini, Preti e religiosi nei Promessi Sposi, in «Seminarium», 8 (1955-1956) pp. 178 ss). Cf. anche F. Crispolti, Un errore di fra Cristoforo?, in Memorie manzoniane, Napoli 1919, pp. 134-142.
[45] C. Angelini, Invito al Manzoni, Brescia 1960, p. XXVI, L’osservazione successiva è dello stesso.
[46] Tito da Ottone, P. Cristoforo, in Letture Manzoniane, Savona 1952, p. 69.
[47] L. Russo, Commento, cit., p. 343, nota a righe 313-314. Pur non essendo fondamentalmente esteriore, la semplicità modella, nel francescanesimo, anche l’esteriore.
[48] Bonaventura, Leggenda maggiore, IV, 7, in FF, tr. S. Olgiati, p. 865. La sottolineatura è nel testo.
[49] G. Orioli, Postille in margine a un capitolo manzoniano, in «Nuova Antologia», 1963, p. 464. Per la referenza successiva, ibidem, p. 465.
[50] F. Crispolti, Indagini sopra il Manzoni, Milano 1940, pp. 345 ss. Cf. anche A.F. Pavanello, La scena del perdono nel capitolo IV dei Promessi Sposi, Milano 1937, pp. 17 ss; F. Flora, Storia della letteratura italiana, VI, Milano 1964, pp. 480 ss; G. Donati-Pettini, Saggio di interpretazioni manzoniane, Bologna 1921, pp. 287 ss.
[51] A. Momigliano, op. cit., p. 229.
[52] E. De Michelis, loc. cit., p. 323.
[53] A. Gramsci, op. cit., p. 109.
[54] Op. cit., p. 198.
[55] A. Momigliano, op. cit., pp. 195-196, che si riferisce a Cristoforo.
[56] L. Russo, Commento, cit., p. 342, nota a riga 277; cf. tuttavia ibidem, p. 344, nota a riga 323.
[57] L. Russo, ibidem, p. 342, nota a righe 267-268.
[58] G. Santarelli, Il P. Cristoforo manzoniano nella critica, cit., pp. 23-62, su tutto il problema della «storicità» del cappuccino.
[59] Cf. A. Momigliano, op. cit., pp. 232 e 219-227.
[60] Idem, ibidem, a proposito di Cristoforo. F. Lo Parco difende Galdino dall’accusa di «freddezza» e di «dommaticità» rispettivamente mosse da F. D’Ovidio in Saggi critici, Napoli 1880 e da A. Bondi in Fra Galdino, «Psyche», Palermo, XVI, 21, novembre 1899 (Due Frati ne’ Promessi Sposi, Ariano 1901, pp. 7-19).
[61] Cf. A. Chiari, L’opera di Alessandro Manzoni, Torino 1960, p. 100.
[62] L. Russo, Commento, cit., pp. 58-59, nota a riga 356. Risparmiamo al lettore un esame particolareggiato.
[63] Cf. Bonaventura, Leggenda maggiore, II, 6. Stessa referenza per la cit. successiva.
[64] Cf. ad esempio Leggenda perugina, 61 e Specchio di perfezione, 22.
[65] Leggenda perugina, 16; Specchio di perfezione, 10, in FF, tr. V. Gamboso, p. 1317. Cf. anche Tommaso da Celano, Vita seconda, 146, soprattutto per il rapporto con il clero.
[66] Lodi delle virtù, vv. 1 e 10, in FF, tr. F. Mattesini, p. 175. Alcuni commentatori hanno reso Galdino uno scaltro calcolatore, un semplicione astuto. Ma, se è ovvio che Galdino non è un san Francesco, è perlomeno ragionevole inquadrarne la figura in quelle tradizioni che dall’Assisiate hanno avuto vita e significato.
[67] Rispettivamente, in T. da Celano, Vita seconda, 211, in cui l’affermazione è incidentale, e Bonaventura, Leggenda maggiore, XI, 4, che richiama concettualmente una verità biblica.
[68] Opere, XX, p. 362.
[69] Il giudizio è di P. Petrocchi, I Promessi Sposi raffrontati nelle due edizioni con commento storico estetico e filologico, Firenze 1992, note a pp. 62 ss.
[70] G. Sclavini, Introduzione ai Promessi Sposi, Firenze 1890, pp. XV-XVI.
[71] Pur discordando dal principio per cui l’arte può rappresentare solo la «vitalità», e dall’assunto per cui «la religione è contro l’arte», non concordiamo neppure con la tesi di Filippo Puglisi, secondo cui la morale è fondamento dell’estetica (Il bello etico in Manzoni e la sua poeticità, Milano 1976, soprattutto pp. 60 e 70). A meno di non riprodurre il concetto romantico di «morale», l’autonomia dell’arte è tale, che l’eticità non è pregiudiziale all’arte, ma alla rappresentazione morale attraverso l’opera d’arte. In questo senso il Manzoni afferma, noi crediamo, che anche la bellezza poetica deve essere morale (Opere inedite e rare, cit., p. 491).
[72] Testamento, 27 e 17, in FF, p. 132. Per un approfondimento, cfr. K. Esser, Il Testamento di San Francesco di Assisi, Milano 1978, pp. 151-152.
[73] L. Russo, Commento, cit., p. 59, nota a riga 356, che lo relega in una insignificanza affettiva.
[74] E «lo scendere e il salir per l’altrui scale»! L’Assisiate, una volta, dovette intervenire per stimolare a questo duro lavoro qualche discepolo.
[75] Solo per una referenza, cf. F. M. da San Marino, Il Beato Bernardo da Offida, Offida 1974, soprattutto pp. 78-84. Questo, comunque, sarebbe un tema troppo impegnativo.
[76] Leggenda perugina, 25; Specchio di perfezione, 104; I Fioretti, XIX. Se i due racconti sono differenti, essi convergono nella concezione fiduciosa e provvidenziale del «perdere qualche cosa», o del «donare», considerato che le fonti dell’Assisiate coprono di un rispettoso velo l’istanza di san Francesco, quella cioè di ricevere i visitatori.
[77] L. Russo, Commento, cit, p. 59, nota a righe 380-381, che parla di «filosofia» e «domma» di Galdino. Ma qual è questa filosofia, se il frate vive di tale elemosina, ad esempio, lui per primo, chiedendo in elemosina la stessa minestra che egli mangia in convento, gli stessi panni di cui si veste – come ha insegnato il Fondatore –? (cf. Dal comportamento dei frati negli eremi, in FF, p. 135).
[78] A. Momigliano, op. cit., p. 204, a proposito di Cristoforo. «Con una mano dava e con l’altra riceveva»; l’«elemosina che esce dal convento è quella che fa entrare l’altra», si legge anche in F. M. da San Marino, op. cit., p. 89.
[79] M. Biagini, Echi e richiami dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, dal Breviario nell’opera del Manzoni, in Atti del VI Congresso Nazionale di Studi Manzoniani, Lecco 1963, p. 281, che non l’attribuisce al Nostro. Cf. E. Opocher, Il problema della giustizia nei Promessi Sposi, in «Rivista di Filosofia del Diritto», 22 (1942) pp. 116-158, che definisce il romanzo «poema di giustizia».
[80] A. Gramsci, op. cit., pp. 86 e 87. Cf. A. Zattoli, Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni, Roma-Milano 1931, che non concerne tuttavia, esattamente, la nostra domanda.
[81] A. Gramsci, op. cit., p. 87.
[82] C. Angelini, Il dono del Manzoni, Firenze 1924, p. 32.
[83] L. Cicchitto, Padre Cristoforo, Modena 1949, p. 3.
[84] Cf. G. Santarelli, op. cit., pp. 23-62.
[85] Cf. A. Scarpa, Figure e figurine manzoniane, Firenze 19512, p. 11. Cf. il semplice ma utile articolo, Luca M. da Carré, Il Francescanesimo nei Promessi Sposi, ne «L’Italia Francescana», 31 (1956) pp. 6-24.
[86] F. D’Ovidio, I pensieri inediti del Borghi, in Rimpianti, Palermo 1903, p. 79.
[87] Sul carattere «reale» di padre Cristoforo, cf. G. Santarelli, op. cit., pp. 18-21; P. Arcari, Padre Cristoforo, Milano 1923, pp. 174 ss; L. Russo, Personaggi dei Promessi Sposi, Bari 1960, p. 332.
[88] M. A. Ferri, Creature manzoniane, Ancona 1926, p. 199.
[89] È una costante storicamente accertabile, arrivando fino ai giorni nostri, la vocazione umile del fratello cercatore, il quale costituisce, anche nell’agiografia francescana, l’elemento di congiunzione senza soluzione di continuità con le origini minori del carisma assisiano.
[90] P. Melillo, I Cappuccini nel romanzo I Promessi Sposi: P. Cristoforo, ne «L’Amico del Terziario», Foggia, 3 (1929) p. 155.
[91] L. Nicoletti, Personaggi dei Promessi Sposi, Firenze 1933, p. 38 attribuito a Cristoforo.
[92] F. D’Ovidio, Nuovi Studi Manzoniani, Milano 1908, p. 307. È detto di Cristoforo.
[93] Op. cit., p. 196.
[94] C. Angelini, I Promessi Sposi, Torino 1958, p. 89.
[95] Come invece sostiene Fulgenzo da Lapedona, La Francescanità di A. Manzoni, ne «L’Italia Francescana», 2 (1927) p. 18. Per giudizi analoghi, cf. F. Pennacchi, San Francesco d’Assisi e Alessandro Manzoni, Assisi 1903; idem, Riflessi francescani nell’opera di Alessandro Manzoni, in Pagine letterarie, Casciano Val di Pesa 1928; P. Boncompagni, Lo spirito del poverello nei Promessi Sposi, ne «L’Italia Francescana», 1 (1926) pp. 317-321. Detti saggi sono tuttavia illuminanti sotto alcuni aspetti specifici, che qui non analizziamo per il limite del nostro argomento. Cf. anche P. Chiminelli, I Cappuccini cavalieri di Dio al seguito di san Francesco, ne «L’Italia Francescana». 34 (1959) pp. 184-191 e 338-348.
[96] F. Crispolti, Indagini sopra il Manzoni, Milano 1940, pp. 340 ss. Cf. la sapiente analisi di C.C. Secchi, Lo spirito francescano nei Promessi Sposi, in Settimana Manzoniana, Milano 1928, pp. 85-108, il quale pone come criterio interpretativo della «francescanità» dei Cappuccini manzoniani la «semplicità».
[97] G. Santarelli, op. cit., p. 49.
[98] Sulla figura del «frate minore», cf. l’utilissimo studio di A. Matanic, Adempiere il Vangelo, Roma 1967, soprattutto p. 40. Cf. anche R. Manselli, Nos qui cum eo fuimus, Roma 1980, pp. 269 ss.
[99] Op. cit., p. 19.
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