1982, SRF, La pace e il tormento nel Francesco dannunziano
La pace e il tormento nel Francesco dannunziano, «Studi e Ricerche Francescane», 1-4 (1982) pagine 145-155.
Testo dell’Articolo
Potrebbe apparire strano che un poeta, definito più «antifrancescano»[1] che mai, abbia avuto presente, e in più luoghi, Francesco d’Assisi. In verità, il D’Annunzio offre nella sua produzione un San Francesco che, sebbene a volte usato in funzione patriottica, introduce un messaggio la cui istanza è coerente con quell’aspetto della realtà spirituale dell’Assisiate, riconosciuto dal critico Enrico Santoni come «vivamente umano»[2]. In altri e più frequenti casi, il Francesco dannunziano è agganciato, per quanto con connotazioni naturalistiche, alla tradizione che nel «cantore delle creature» esalta il «culto grazioso d’una natura boschiva»[3]. Ma l’aspetto forse peculiare dell’Assisiate dannunziano consiste nella configurazione sofferente, in cui è proiettato il conflitto psicologico e morale dello scrittore. Corretto del peso soggettivo di tale proiezione dannunziana, il personaggio Francesco non può non affascinare, nell’opera del Pescarese, per la drammaticità della sua lotta.
Il primo aspetto francescano risalta in due composizioni: Per i cittadini, e La preghiera di Doberdò. Il contesto dell’una e dell’altra rientra nella poetica civile; lo scopo è l’incitamento patriottico. Un’analisi attenta della struttura e dell’intuizione poetica di Per i cittadini mostra come, avvicinandosi all’ultima parte dell’opera, quella francescana, il poeta si accosti ad una visione più umile ed interiore dei personaggi, per trattare infine dell’oscura e silenziosa povertà di una vecchia. Sembra trasparire, in controluce, il volto di colui che entrerà, irrompente, in scena alla fine: Francesco.
L’eroismo, qui, senza parola (VII, v. 3) e strepito, è in una «stanza fredda / come la soglia del sepolcro» (VII, vv. 5-6), che ricorda la terra, nuda e fredda, in cui morì San Francesco[4]. La pace annunziata alla donna «inferma e triste e sola» (VII, v. 1) si offre in questa povera stanza, che sembra allargarsi (cfr. VII, V. 23) per ricevere la figura del Santo che porta il messaggio di pace. È un messaggio che penetra, silenzioso, come l’«alito fresco / come un canto novello» (VII, vv. 21-22), in cui par di udire la gioia di Francesco quando disse: «Ben venga mia sorella morte»[5]. È a questo punto che alla vista della donna, cui manca anche l’«ultimo pane» (VII, v. 10), appare l’angelo della pace:
«e nella povertà di San Francesco,
nella felicità del Poverello,
ella non ha più fame né più sete;
e l’angelo sommesso le ripete:
Vivi morendo in pace:
quivi è Dio verace
e sia lodato» (VII, 24-32).
La preghiera di Doberdò, scritta nella Novena di San Francesco nel 1916, presenta simbolicamente l’immagine del Santo stesso: «San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell’altare maggiore».
Il contesto è anche qui cruento e penoso. Anche qui, San Francesco è in mezzo alla gente insanguinata e sofferente, povero per primo lui stesso, con «la tonaca logora, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi scalzi». Ed è, ancora una volta, l’uomo discreto, che «lacrima e non s’ode». Il suo pianto non è tra le folle.
È, questa, una intuizione, se non altro estetica ma con valore anche morale, dell’atteggiamento di San Francesco nei confronti degli ammalati, degli addolorati, feriti nel corpo e nell’animo: quell’atteggiamento di cui il Fondatore fece un obbligo esplicito sia nella Regola non bollata sia nella Regola bollata[6].
Il tradizionale e benedicente gesto accogliente le creature è riprodotto poi, nella stessa Preghiera, quando «entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l’ultima rondine». L’«ultimo pane» della vecchia in Per i cittadini era segno dell’estrema povertà; l’«ultima rondine» è, qui, segno dell’estrema desolazione bellica. Lì c’era San Francesco che dava il saluto della pace, segno di liberazione ed elevazione; qui il «Santo rapito», che «si volge» alla rondine come «messaggera di una stagione sublime», è fatto segno di quel «miracolo» che è la speranza di un mondo rinnovato dalla fratellanza. Grazie a tale speranza certa, il poeta vede il Signore «ridiscendere nella casa disfatta». È difficile negare che il D’Annunzio, per quanto estrinsecamente si voglia dire, abbia colto il valore se non altro «umano» dell’Assisiate. Si consideri che egli parla di sofferenza e di sublimazione della sofferenza al cospetto di lui, e che quindi, se pur non entra nelle ragioni più interiori del principio francescano: «Tanto è il bene ch’io aspetto, che ogni pena m’ diletto» e «piccola è la sofferenza, infinita la gloria[7], tuttavia ne raccoglie l’istanza se non altro morale.
Sulla scia di una diffusa iconografia francescana, l’atmosfera festosa della natura si impone in Montefalco e in Assisi, due sonetti de Le città del silenzio dell’«Elettra». Se è vero che l’autore non sente davvero il «silenzio» di queste città, come ha affermato Enrico Santoni[8], è certo d’altra parte che egli ha saputo sentire Francesco come l’esemplare dell’«amor per ogni creatura / viva», illuminata dal «sorriso» che rende «beata» la creazione (Montefalco, vv. 3-4 e 8). In Assisi il poeta addirittura ammira la «pace profonda» (v. 1) della campagna umbra, che definisce la più «vicina a noi» fra tutte quelle esistenti nel mondo (Le faville del maglio).
«V’è sparso per il paese verde quasi un sentimento di familiarità affettuosa. L’orizzonte ci guarda; ha la bontà consapevole di una pupilla cilestre»[9]. Nel recepire la «familiarità» umana e dolce di Francesco, l’autore coglie un elemento caratterizzante di lui, cioè la «bontà» che non significa debolezza, ma capacità di rendere beato il mondo. Come nelle composizioni sopra ricordate Francesco operava confortando e conferendo coraggio e speranza, qui egli quasi santifica rendendo bella la natura.
Più che in Assisi, in cui forse pesa un po’ l’afflato retorico come in quegli «ulivi (che) surgon dalla torta sponda» «come fiamme anelanti di salire» (vv. 8 e 7), l’intuizione poetica dell’affettuosità creaturale dell’Assisiate è ne Le faville del maglio, dove il D’Annunzio sperimenta una «specie di veggenza (che) è in tutte le cose naturali»:
«sinché le pupille e l’anima si ricordino».
«Era la vista ed era la visione». Dopo aver sostituito «Ascesi», dantescamente, con «Oriente», il D’Annunzio non nega che la sua «visione» passa attraverso la «vista». Dell’immagine della «città di pietra fondata dai guerrieri e dai mercanti», dall’immagine della «grande mole […] degli archi possenti della basilica biancheggianti come di luce propria», l’autore ha la «visione»: è quella della «fede» della città «sostenuta dalla palma trafitta di Francesco», è quella della «parola serafica» che celebra la lode di Dio: «― Sirocchie mie uccelli, ricorda lo scrittore, voi siete molto tenute al Dio vostro creatore […]; pareva che quivi fosse l’aspettazione della parola serafica». Il riferimento alla stigmatizzazione dell’Assisiate è sobrio; l’«aspettazione della parola serafica» implica un’attesa più inconscia che consapevole: ma non è illusoria, e ancor meno mendace.
Il «fiato / fresco» della «preghiera vesperale» (Assisi, vv. 9-10), semanticamente simile al «vapore latteo (che all’alba) si levava dall’altura verso il sommo cielo, nella pallidità lunare» (Le faville del maglio), tradisce nel D’Annunzio un sentimento della preghiera più naturalistico che spirituale. Ma dove la dimensione del sacro si fa più intima e drammatica è dinanzi alla «porta consunta, più arida dell’esca […], schiantata come i cuori in patimento e in rapimento», cioè dinanzi alla «reliquia (più) venerabile» di ogni altra, Santa Maria degli Angeli, la cui visita è descritta ne Le faville del maglio. La considerazione dannunziana si accosta a quella di Emilio Castellar y Rippol (1832-1899): «umile tugurio […] con anguste porte e finestre, dove San Francesco pregò, meditò, digiunò, pianse» (Recuerdos de Italia).
Vero è che il «patimento» e il «rapimento» dannunziani sono sempre un po’ al limite del piacere e della purezza; ma quanto segue è, nella sua crudità, terribilmente realistico: «Ecco una porta della Vita, la Porta stretta». Il fatto che lo scrittore indichi la porta, e la Porta, come una, con l’articolo indeterminato, significa che ammette e confessa la possibilità di essa. Qui egli dunque, umilmente, perde il consueto sentimento della fatalità, del Diritto ad un Destino riservato al Superuomo: dinanzi a Francesco, Gabriele non gioca a barare. La salvezza ha le stesse regole per lui come per tutti gli uomini: essa è una scelta, non un privilegio. Essa è difficile, ma umana. «Per entrarvi, bisogna che io mi mutili». La forza del termine «mutilazione», che deriva dal Vangelo, non è solo retorica: esprime una condizione che vale anche per lui e che nessuno può compiere al suo posto. Qualcun altro, invece, può soltanto preparargli l’occasione:
«Qualcuno forse, chi sa dove, m’affila il coltello».
Anche il citato Escobar vede nel luogo francescano «una di quelle zone misteriose che annunciano la trasfigurazione». Il D’Annunzio, in queste «zone misteriose», ha ragione di tremare.
Raccontando la storia di Cunegonda, ne Le faville del maglio, lo scrittore sembra alludere a se stesso, a quel «qualcuno» che forse gli «affila il coltello». Cunegonda infatti si sarebbe fatta monaca, egli narra, se «non (ne) fosse stata impedita dal suo folle amore per la capigliatura, la più bella di tutto il reame, ch’ella amava più di sé medesima e del dolce Signore Gesù». Essendole stati tagliati, per un equivoco, i capelli, Santa Elisabetta d’Ungheria così le disse: «D’averti tosata io son più contenta che non sarei se il mio figliuolo fosse fatto imperatore». Tutto questo è narrato durante la visita a Santa Maria degli Angeli. E si notano, in queste pagine, passaggi di toni e alternarsi di immagini che svelano un dramma.
Fino ad un certo momento, il D’Annunzio contempla il «pio albore» annunziante la «natività della luna» e, sempre con una pacatezza stilistica ed una discrezione lessicale qui degne di nota nel Pescarese, continua: «La valle si colma di lento sonno; lavato dalla pioggia, «il cielo si sgombra». È qui dipinta mirabilmente la pace della natura, una tranquillità che sfiora addirittura la «sonnolenza». Tutto è pulito, il cielo si sgombra. Ritrovi l’atteggiamento pacato di Elisabetta che dichiara serenamente a Cunegonda disperata: «Non mi cale. Senza capelli danzerà con men grazia».
Poi, di scatto, leggi: «Ma ancora biancheggia il letto del Tescio tortuoso», e, dopo un punto e virgola che spezzando il periodo pone l’accento sul prosieguo, leggi: «che è l’immagine dell’implacabile desiderio e dell’inestinguibile sete». Il D’Annunzio ha avvertito, sentito, capito lucidamente: è il «contrasto con le linee consolatrici della terra francescana». Francesco è pace e tormento. Gabriele, accanto a Francesco, vede la possibile pace, e l’attuale tormento.
Lo stesso contrasto s’impone in Assisi, tra il dolce verde degli ulivi e il terribile «biancheggiar» del Tescio, con una struttura sintattica in cui il riferimento al Tescio si colloca in una proposizione principale divisa da quella subordinata riguardante la dolce poeticità della natura con la sua «preghiera vesperale». A guardar bene, non si tratta di una semplice struttura formale: si tratta di un conflitto emotivo che sfocia nelle «tortuosità desiderose» del Tescio, e che compare già all’inizio dello stesso sonetto Assisi. Il Tescio rompe la «pace profonda» (v. 1) che emana dal territorio francescano, e, continua l’autore, l’anima «non s’allentò» (v. 3), «ma sol si finse l’ire / del Tescio quando il greto aspro s’inonda» (vv. 3-4). Il poeta ha paura della malia del «Tescio» dalle grandi «ire», e dinanzi al rischio della sua irruenza, al pensiero della sua possibile violenza, egli non riesce a trovare una pace stabile, a consistere nella «tua», dice quasi affettuosamente, «pace profonda».
Del Tescio, il D’Annunzio dice ne Le faville del maglio: «Questo fiumicello serpeggiante, disseccato, taciturno […] attrae di continuo il mio sguardo e il mio spirito». Il semantema «serpente» indica simbolicamente tentazione, insidia; la «dissecchezza» esprime la sete insoddisfatta, e la «taciturnità» ha significato negativo, come qualcosa che tace per inganno. È l’opposto della tacita aspettazione della parola serafica. Il Tescio è simbolo di qualcosa che al presente manca ma che può in ogni momento, con forza irresistibile, inondare, piegare, abbattere, travolgere. È detto chiaramente nel prosieguo: esso è «un aspetto di tormento, è il segno dell’anima agitata e avida. Nella sua (del Tescio) secchezza sembra persistere il sentimento dell’acqua scomparsa». La sottolineatura è dell’autore: con ciò egli allude ad un pre-sentimento, poiché parla di ciò che non c’è, è «scomparso», quindi di ciò che manca, ma la cui assenza rimanda ad una possibilità. L’agitazione dell’anima a causa di questa assenza-che-può-diventare-presenza è indice di una paura per l’irrompere dell’«acqua», cioè della passione, ed è al contempo desiderio di ciò che manca. È questa la voluttà dannunziana, che l’autore non sa non proiettare nel suo Francesco.
«Non v’è forse corrispondenza tra il perfido ardore di questo fiume e il turbamento che traeva Francesco a castigare il suo corpo su le spine del roseto?». Il tormento carnale del D’Annunzio è quindi affidato all’uomo di Assisi. Correttamente o meno, non è forse anche questa una prova di fiducia in lui? Noi crediamo di sì:
«Anche il Serafico aveva in sé il suo Tescio».
La frase continua così: «come questa campagna placida felice e pia. Le selci biancheggeranno tutta la notte sotto la luna».
La dolce natura ha il suo tormento; anche Francesco ha la pace e il tormento. Non c’è anima «placida felice e pia» senza qualche dramma. Il problema è solo che il D’Annunzio non ha capito, come vedremo, la risoluzione del dramma in Francesco. Ad ogni modo, la chiusura del brano citato esprime, nonostante l’apparente divagazione, la situazione morale dello scrittore: le «selci» bianche nel letto del Tescio, per il D’Annunzio, rimarranno: restano lì, «tutta la notte», incancellabili. La luna le guarda, per un certo verso addolcendole, ma per altro verso drammatizzandole, poiché la «luna» rappresenta, per tradizione letteraria che risale se non altro al Leopardi, l’impassibilità del destino quasi cinico, la coscienza muta che resta inattiva.
Da questa attrazione-paura nasce la visione del Francesco dannunziano, passionalmente in lotta con la passione, nel sonetto Assisi:
«Anche vidi la carne di Francesco
affocata dal demone carnale
sanguinar su le spine delle rose».
I biografi di San Francesco ci tramandano il suo trattamento cruento della «carne»: «[…] nei primi tempi della sua conversione, durante l’inverno s’immergeva, per lo più, in una fossa piena di ghiaccio» per contrastare al «fuoco della passione»[10]. In una «violentissima tentazione di lussuria, egli si spoglia della veste e si flagella con estrema violenza con un pezzo di corda. ‘Orsù, frate asino, così tu devi sottostare, così subire il flagello’»[11]; poi «spalancò la cella, uscì fuori nell’orto e, immergendo nella neve alta il corpicciolo già denudato[12], prese a dileggiare l’insorto bisogno di prendersi una moglie. Si sa che San Francesco rese il proprio corpo «tutto rovinato»[13], tanto da subirne «parecchie malattie»[14]. Tuttavia la dimensione dell’Assisiate si radicava nella necessità biblica e morale di soggiogare quella che egli non poteva non definire «nemica dell’anima»[15], «contraria ad ogni bene»[16], inconcludente per lo spirito[17]. Considerata in questa luce, la carne non era una tragedia, ma un’occasione di bene. Essa infatti era essenzialmente rivolta all’acquisizione della pace, cui in effetti Francesco pervenne grazie allo stesso «tormento» patito dal corpo. Chiamandolo «fratello», Francesco infatti alla fine, ormai maturato nell’animo, poteva dire: «Rallegrati, frate corpo, e perdonami: ecco, ora sono pronto a soddisfare i tuoi desideri, mi accingo volentieri a dare ascolto ai tuoi lamenti»[18].
Arricchito e pacificato da questa lotta, il Fondatore poteva ben esortare gli uomini e i suoi fratelli alla discrezione verso l’«amico fedele»[19], poiché bisogna «soddisfare in modo equilibrato il proprio corpo nel nutrimento, nel riposo e nelle altre necessità»[20] e mostrarsi sempre sereni ed allegri[21]. La mestizia è infatti opera del demonio, secondo l’Assisiate[22]; quando il suo «fratello corpo era pieno di dolori, egli chiese per esso un po’ di conforto con qualche bel verso suonato con una cetra «presa in prestito in segreto»[23].
Tuttavia l’interpretazione tormentata dell’Assisiate non è solo dannunziana. Alfredo Oriani lo vede «amante del dolore più che dell’amore»: «Come bacche rosse fra gli spini i vostri pensieri, egli dice rivolgendosi al Santo, fiorivano di sangue», poiché «dopo la morte di Cristo nessuna vita rimase intera e nessun amore fu senza disperazione in questo mondo» (La bicicletta). Vero è che l’Oriani volge in positivo questa drammaticità conflittuale del cristianesimo e del francescanesimo, in quanto il dolore diventa per lui «amore per tutte le cose, perché anch’esse soffrono». L’accettazione della sofferenza conduce San Francesco ad un punto «così alto che la vita non avrebbe potuto più ascendere», ad un limite in cui il patire diventa «una festa» che salva tutte le creature: «con gli occhi bagnati di pianto, l’anima pura (di Francesco) come quella di Cristo guardava benedicendo». Ma bisogna dire che anche per il D’Annunzio vale la forza rigeneratrice dell’umiliazione francescana, come è stato accennato a proposito delle composizioni Per i cittadini e La preghiera di Doberdò, cioè là dove non s’inseriva il problema «carnale».
Ciò invece in cui la divergenza fra la cultura dannunziana e quella francescana è più palese è nell’aspetto del nascondimento e dell’umile esercizio quotidiano, nel quale il Pescarese sembra scorgere una dimensione «avitale», nel senso etimologico del termine. C’è da precisare tuttavia che tale aspetto non è dallo scrittore individuato nell’Assisiate stesso, né storicamente né spiritualmente, ma nella pratica monastica quale egli osserva nella visita a San Damiano, ne Le faville del maglio. Traspare una sfumatura di ironia nel rilevamento di quell’«odore di cera, d’incenso e di basilico (che) investe l’anima, nella cappella affumicata come una piscina», sul quale è insito ancor dopo; «l’odor di cera, di cera e di basilico» pone la seguente domanda alla mente del visitatore: è forse questa «la fragranza della loro (delle monache) santità?». L’interrogativo è ambiguo, e non aiuta a risolvere il dubbio del sarcasmo né il fatto che gli «odori» costituiscano per il D’Annunzio un elemento essenziale e decisamente simbolico della sua personalità e della sua poetica, né il fatto che la «materia tacita» ma eloquente come una «memoria parlante» dell’arredo antico di San Damiano portino «le impronte di vita» e cantino, come ancora si esprime l’autore, «un canto di miseria e di dolcezza, di penitenza e di estasi». Il D’Annunzio osserva che «l’anima cristiana ha larga narice»: ma non è proprio questo un indizio che egli sa capire poco dell’«anima cristiana»?
È vero che il problema non è quello se egli veramente capisca questa «anima cristiana», ma se egli crede almeno di capirla. Tuttavia egli proprio in questo ambiente, a suo avviso scolorito, mostra di non ritenere di volerla capire. Dicevamo che si tratta dell’ambiente ascetico, umilmente ascetico, di cui l’autore sottolinea il «silenzio» con una pesantezza tonale quasi terrificante. In questo «tempo […] interrotto» solo dal battito dell’orologio, in cui «tutto è silenzio», sembra che nulla sia mai avvenuto: «Tutto è silenzio, inerzia […] ove nessuno prega, nessuno muore […]; nessuno scende, nessuno sale». Si chiede lo scrittore: «Vi fu mai mutazione d’anni, tumulto d’eventi, clamor d’ira o d’allegrezza? Vi furon mai strade e sentieri pel mondo, timoni di carri, prore di navi, ale di remi, folli voli?». È vero che l’animo del D’Annunzio sapeva esser attratto anche dai grandi «silenzi», in cui viveva una specie di pace cosmica; ma il dubbio, nel lettore, resta. È ammirazione o deprezzamento?
La descrizione dei novizi sembra palesemente indicare un’incapacità dello scrittore di partecipare a quella vita nascosta e ritirata, fatta di paziente e costante sacrificio e non di straordinari voli mistici. Ma quando il D’Annunzio esce fuori dal monastero, ritrova l’ispirazione sua autentica alla preghiera che «riempie i chiostri, entra per le innumerevoli finestre aperte e buie onde Ascesi respira e sospira». È l’ora in cui «le campane suonano l’Angelus», in cui «tutta la città è un’implorazione», e l’«anima china sull’abisso, vertiginosa, attende il rapimento».
È chiaro che l’animo del D’Annunzio è nato per captare la preghiera della natura e nella natura, e non del chiostro. Egli si immedesima con quell’«ascensione» che parte dalla bella «umbra» campagna, e dice: «il sentimento di ascensione che è in quest’ora nelle cose, è anche in me». Il tutto, nell’«umanità» terribile e sofferta del «Tescio»: esso «è quanto di più umano e di più vicino io trovi in tutto, il paese mistico», confessa lo scrittore a questo punto.
L’intuizione estetica del D’Annunzio ed il suo misticismo poetico lo induce a vedere, nella spaziosità dell’orizzonte umbro, un episodio della vita del Santo[24]: «il riverbero di un incendio lontano. Forse Chiara e Francesco convergono a colloquio, laggiù, in qualche tugurio». La pace, sia pur nella dialetticità del Tescio francesco-dannunziano, invade, infine, il panorama di questa suggestiva Umbria mistica, nella quale il Pescarese sembra aver toccato, se non approfondito, uno degli elementi più cari alla letteratura francescana, non ultima quella di scrittori cattolici: «L’anima del Padre Serafico si diffonde per tutta la valle, benedice tutte le specie, conforta tutti i focolari». Pertanto, non bisogna decifrare in questa visione soltanto la peculiarità dell’atteggiamento panico del D’Annunzio. C’è infatti una nutrita iconografia, per così dire, letteraria che avalla simili immagini, del resto non mai esasperate nel Francesco dannunziano. L’anima ed il gesto dell’Assisiate de La preghiera di Doberdò sono anticipati in questo finale «francescano» de Le faville del maglio. La pace sembra conquidere l’animo dello scrittore, che, sempre di fronte alla figura rivissuta del Santo, scrive: «Le labbra si muovono nella consuetudine della preghiera; le ginocchia si piegano, la mano fa il segno della croce». In tale atmosfera ci appare un D’Annunzio recuperato addirittura alle ragioni degli uomini dall’ascetismo ignorato, segnati da quell’immobilità «quasi senza respiro», occupati «da una sonnolenza opaca», con cui egli aveva descritto i novizi nel coro, durante la visita di cui sopra. Così egli, ora, può dire:
«In ogni donna è una clarissa, in ogni uomo è un minorita.
Ave Maria, piena di grazia».
[1] Ennico Santoni, San Francesco nella moderna poesia italiana, in San Francesco, IV, ott.-nov.-dic. 1924, a. I, p. 361.
[2] Ibid., 355.
[3] M. A. Brunamonti, Discorsi d’Arte, in Tommaso Nediani, Fiorita francescana, Milano 1921, 297.
[4] Cfr. Gualtiero di Gisburn, in Fonti Francescane, Assisi 1978, 1961. Si rimanda alle Fonti Francescane per ogni altra referenza di testi francescani, in traduzione.
[5] Cfr., per San Francesco, Leggenda perugina, 65 e Specchio di perfezione, XII, 122.
[6] Rispettivamente, X, 1-2 e VI, 11.
[7] Fioretti, «Della prima considerazione delle sante sacre Istimate»; Tommaso da Celano, Vita seconda, CXLIL, 19.
[8] E. Santoni, art. cit., 360.
[9] In T. Nediani, op. cit., 330.
[10] S. Bonaventura, Leggenda maggiore, V, 3.
[11] T. da Celano, op. cit., LXXXII, 116.
[12] Bonaventura, op. cit., V, 4.
[13] Celano, op. cit., CLX, 211.
[14] Celano, Vita prima, IV, 97.
[15] Lettera a tutti i fedeli, X, 65-66; Regola non bollata, X, 7-8.
[16] Ammonizioni, XII, 2.
[17] Regola non bollata, XVII, 12.
[18] Celano, Vita seconda, CLX, 211.
[19] Ibid.
[20] Idem, Vita prima, IV, 97.
[21] Idem, Vita seconda, XCI, 128.
[22] Leggenda perugina, 96.
[23] Celano, op. cit., LXXXIX, 126.
[24] Fioretti, XVI.
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