1981, Communio, La paternità in Leopardi
La paternità in Leopardi, «Communio», 60 (1981) pp. 85-97; poi Literay.it [2016].
Titolo e Testo dell’articolo
La paternità in Leopardi
Nell’universo psicologico e poetico del Leopardi giocano due fattori dinamici essenziali correlati fra loro: la tensione emotiva e la frustrazione affettiva, che spiegano in complesse interrelazioni fenomenologie psichiche specifiche[1]; ma noi qui ci occupiamo soltanto di due aspetti circostanziati: la frustrazione affettiva in rapporto alla coercizione educativa, e la misericordia compassionevole in rapporto alla tensione amorevole.
Il ruolo educativo della contessa Antici fu in qualche modo sostitutivo di quello paterno, soprattutto da quando ella dovette occuparsi degli «affari» di famiglia[2]. Le testimonianze più dirette[3] ricordano l’Antici come una madre «buona» (Antona-Traversi), ma di carattere «virile» ed anche «esclusivista»; «sani o malati i suoi figli non appartenevano che a lei» (Teja). Questa possessività di per sé sfavorevole ad una libera espansione affettiva, era inoltre congiunta ad una freddezza di cuore che determinò l’assenza della «maternità» comprensiva, proprio come toglimento di presenza, nella dinamica psichica leopardiana. Il non permettere che i suoi figli fossero accuditi materialmente dal personale di servizio (Antona-Traversi) non significò premurosità cordiale: sembra che Adelaide non abbia mai dato un bacio ai figli e che anzi li accogliesse con «freddezza» quando essi, piccolini, si rivolgevano a lei. Per contro, esercitava un controllo spietato sia sulle azioni sia sui loro sentimenti e ad esempio controllava le lettere che Paolina riceveva o inviava alle sorelle Brighenti, amiche di famiglia. Da qui, tutti i sotterfugi dei figli, Paolina compresa. Carlo ricorda un episodio che gli parve non già di intolleranza etica – considerati i costumi dell’epoca e il livello sociale della famiglia –, ma di incresciosa durezza educativa, quando Luigi fu sorpreso sotto le finestre di una ragazza, a colloquio serotino. Il tono dello scritto di Carlo[4] sottende l’acredine velata appena da una commiserazione ridicolizzante, per quel tipo di terrorismo psicologico; ma l’accusa di «reo» per aver «guastato» Luigi dovette scatenare sensi di colpa più nel «sensitivo» Giacomo, estraneo all’episodio, che al refrattario Carlo.
Un aspetto specifico della rigidità irragionevole della Antici è quello morale, che è necessario considerare per valutare la misura del recupero, da parte del Leopardi, di quella dimensione «misericordiosa» verso la quale egli era stato indotto ad un’avversione penosa. L’asciutta ma terrificante fotografia morale che il Nostro traccia di sua madre nello Zibaldone[5] è quella di una persona che riesce, in buona fede, a scambiare l’interesse con la religione e l’aridità di cuore con la virtù. Ella «ama i figli» solo perché «costretta dalla fede» (sic); alla morte di bambini riesce a «dissimulare» dolore per non essere «biasimata», ma in realtà li «invidia intimamente e sinceramente», perché «eran volati al paradiso senza pericolo» e – continua l’Autore con un accostamento impressionante – «avevan liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli». In effetti ella, pur esattissima negli uffici che rendeva ai figli malati, «arrivò a confessare che il solo timore che provava nell’interrogare o consultare medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento», e manifestava il dispetto verso il marito vedendolo addolorarsi per qualche malattia dei figli. Imponeva poi in modo tale il concetto dell’umiltà, collegato alla castità, che non solo obbligava i figli a riconoscere «i loro difetti», ma cercava anche «studiosamente l’occasione di rinfacciarglieli», di «persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce». La povertà, poi, era un obbligo ancora più rigoroso (e vantaggioso), legato alla mortificazione corporale. Ella mandava ad esempio, i figli vestiti in modo poco decente. Suo fratello, il conte Carlo Antici, intervenne nel 1818 per consigliare un trattamento, in generale, più mite, una pedagogia pi liberante, una cura più umana, in particolare a difesa dello spaurito, mingherlino e impacciato Giacomo[6].
Le prime reazioni del Leopardi circa la religione si ebbero intorno al 1817; nel 1824, egli distingueva poi tra religione «cristianamente» intesa, cioè secondo gli apologisti della religione, e «moralmente» intesa, cioè quella della «giustizia, magnanimità», senza la quale si verrebbe a concludere «che il vero partito di questo mondo, è l’essere perfetto egoista e il fare quello che ci torna in maggior comodo […]»[7].
E ciò sta a dimostrare quale dimensione il Leopardi intuisse intrinseca al cristianesimo: la necessità delle «viscere di misericordia» – di paolina memoria – che egli sentiva dover accompagnare l’imposizione etica e il rapporto interpersonale. In questa linea bisogna intendere la delusa definizione leopardiana della virtù come «patrimonio dei coglioni»[8].
La virtù – che fondamentalmente è, per il Leopardi, la «bontà» – acquista la rappresentazione del suo opposto, e cioè della sopraffazione tiranneggiante se è vissuta e sperimentata nella modalità della coercizione; per cui, essa «non serve a nulla»[9] in un mondo in cui gli uomini tendono a schiacciare il virtuoso.
Da qui, la conseguenza per cui l’uomo buono «si determina di prevenirli (gli uomini), e di schiacciarli esso in quanto possa», facendo «penitenza» della bontà precedente.
Questo amaro processo del Galantuomo e Mondo trova riscontro nel fenomeno «assurdo, ma vero» dello Zibaldone: l’uomo «più soggetto a cadere nell’indifferenza e nell’insensibilità» d’animo è proprio quello più «sensibile», il quale «fin dalla gioventù», a causa dei rapporti impietosi con cui si è scontrato, cade in un’indifferenza che «produce un egoismo noncurante, una somma incapacità di amare»[10]. Altrove l’Autore sostiene che l’uomo sceglie la «malvagità» solo per «vendicarsi» dell’«uso» abituale di affliggere il prossimo[11]. Ma la «vendetta» implica un ideale, quello cioè contro cui ci si vendica: quindi sottintende la tensione opposta come valore in sé.
La biografia del Leopardi offre esempi, in effetti, di mancanza di longanimità e di bontà misericordiosa, ad esempio nell’irriconoscenza inqualificabile verso Pietro Colletta[12] nel risentimento ingiustificato verso Carlo Antici[13], nella diffamazione stupida e gretta ai danni di Giuseppe Melchiorri[14], nell’acida vendetta contro Niccolò Tommaseo[15]. Ma, in tutti i casi, il Leopardi si era trovato di fronte ad atteggiamenti rigidi nei giudizi, o di tipo moralistico o di tipo letterario, nei propri riguardi.
Questa circostanza dimostra che la cattiveria leopardiana era puramente reattiva, e non significò un’applicazione ragionata della sua stessa teoria, del resto anch’essa psicologicamente difensiva, nei confronti soprattutto dei giudizi umilianti. Quando infatti Giacomo incominciava a mostrare tendenze ideologiche contrarie a quelle ricevute in famiglia, sua madre, che pur lo aveva ritenuto «buono» e «figlio prediletto»[16], prese ad avvilirlo chiamandolo «saccentuzzo», ironicamente il «filosofo» o l’«eremita»[17], e si rifiutò di prendere in alcuna considerazione le difficoltà fisiche e psichiche verso cui egli stava rovinando. Le manifestazioni patologiche di suo figlio, la nera taciturnità, lo studio notturno al lume di candela, la filoclinia, la monofagia e il resto, erano cinicamente tacciate di stupida pazzia: «Pianto e malinconia per esser uomo, tenuto e proposto da mia madre per matto»[18].
Anche il rapporto con il padre cominciò a diventare rovinoso con la conversione filosofica di Giacomo, il quale poi avrebbe trovato in lui un oppositore spietato a proposito delle Operette Morali[19]. Il Nostro, negli appunti Ricordi d infanzia e di adolescenza, annota con un senso di colpa quel rapporto: «vedutomi poi ec. disubbidiente ai pregiudizi».
L’indicazione pedagogico-morale, messa in rapporto con le concezioni impositive del padre, rivelano tutta la negatività di queste nel vissuto di Giacomo. Nei citati appunti, l’autorità coercitiva del padre è annotata due volte per quanto riguarda la scelta professionale di «dottore», ed una volta la controparte è ricordata con un «quel mio padre », il cui pronome indefinito di lontananza, spontaneo ed «ex abrupto» nel contesto, rivela un distacco affettivo molto prossimo al disprezzo o odio.
La iattura per quel povero ragazzo «scrupoloso – così, secondo Paolina! –[20], ma in realtà timido e colpevolizzato, fu anche la decisione di suo padre di «farlo prete»; spaventoso obbligo per quel diciassettenne «sensitivo» – come il Leopardi si definisce –, colpito dalle più strane fantasie d’amore, in quel tempo sconvolgenti per la cugina Geltrude Cassi in Lazzari.
Ma la intolleranza paterna si configura nella sua coercizione anche nella vita quotidiana: Monaldo costringe il figlio a mangiare necessariamente un cibo piuttosto che un altro, e lo sgrida «pure» in altri casi, fino a mostrare intemperanze di autoritarismo umiliante nelle rampogne: «diceva in faccia mia in proposito de’ miei fratelli minori che non si curava…scelleratissimo sappi che se tu non ti andassi a procacciarti la tua pena io ti avrei scannato con queste mie mani ec. quando anche nessun altro lo avesse fatto ec.».
Queste volanti annotazioni dei Ricordi di infanzia e di adolescenza, che dicono terrore in quel che non dicono, si concludono subito con un giuramento chiaro, solenne e sacro nella sua concisione e decisione: «Giuro che non voglio più tiranni». La medesima terminologia ricorre ancora negli stessi appunti: «desiderio di uccidere il tiranno». Negli scritti dell’adolescente Giacomo la «tirannia» è un argomento emblematico[21]; ma è soprattutto negli scritti maturi che risulta la risposta più lucida, anche se meno immediata, alla «castrazione genitoriale». Un avallo di questa rappresentazione tirannica della paternità è offerta dal seguente episodio: Giacomo, prima della tentata fuga del luglio 1819, avrebbe dichiarato ad un prete che per «l’onorare i genitori non intendeva esserne schiavo»; il prete lo avrebbe tacciato, per questo, di «empietà»[22].
Uno degli effetti di tale educazione impietosa fu, già agli inizi dell’adolescenza, l’inoperosità reattiva – che nel prosieguo biografico si sarebbe radicalizzata in periodiche stasi catalettiche, o perlomeno la più «noiosa solitudine». È di quel periodo la riflessione leopardiana sulla «inazione e il guardarsi dal fare, l’impedirsi dal fare», cosa che costituisce «stato violento» per la violenza forza opposta della vitalità psichica[23]. Così «sbattendosi nella sua gabbia come un orso»[24], nel Leopardi germinò l’amore per la morte e l’odio per il mondo, «nemico del bene» o della bontà[25]. L’affermazione che la fanciullezza, «tormentata in mille modi, con mille angustie, timori, fatiche dell’educazione»[26], è un’età di ossessioni, appare strana nell’universo teorico del Leopardi se non è messa in relazione biografica con la «tirannia» paterna, che gli spense tutte le «passioni e l’entusiasmo»[27], lo ridusse a «consumarsi i denti a forza di rodere la catena»[28] e a smarrire l’idea stessa della «casa e famiglia», «una cosa che non conosco, ma sento chiamare tale»[29].
Ma Giacomo amò suo padre. Quando e come?
A dodici anni, aveva ancora il suo normale affetto filiale verso il «genitor diletto»[30]. Ma bisogna che qui seguiamo l’evoluzione successiva.
Per giustificare il suo allontanamento da casa – con proiezione psicologica sul «paese natio», Giacomo parla di «disprezzo» patito e del venir «sfuggito», emotivamente: ciò «ha pregiudicato per sempre il mio carattere»[31]. Diceva questo, ancora nel 1827. Ma nel 1819 le ragioni erano state molto più circostanziate. L’analisi è lucida, e un po’ terribile: mancanza di «libertà», di cui a lui «non si accordava ai 21 anni» neppure «un terzo» di quella che si concede a «tutti i diciassettenni»; mancanza di apprezzamento, per cui, mentre i «padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri», «Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente di ogni altra persona». Per quanto riguarda il «Signor Padre», rifiuto di «far sacrifici per me»; «fermezza straordinaria di carattere – cioè tiranneggiamento –, e «costantissima dissimulazione», cioè falsità nei confronti del figlio. Insomma, pretendere, pretendere soltanto: «Ella esigeva […] il sacrificio, non di roba […], ma delle nostre inclinazioni […], e di tutta la nostra vita[32].
Ma, alla fine, la lettera contiene un elemento psicologico significativo: il desiderio sincero dello scrivente di non dispiacere a un padre che egli «ha sempre venerato e amato». Inoltre, la preghiera che non gli si ricusi «quella compassione che non si nega neanche ai malfattori».
Noi riteniamo che la risposta che il Leopardi diede, nonostante tutto e fatte salve alcune dinamiche di diplomazia interessata, a suo padre, è da valutarsi in quella chiave interpretativa che è la compassione umilmente chiesta per se stesso. E in ciò è la grandezza smisurata, dal punto di vista umano, del «disgraziatissimo» Leopardi.
Da parte sua, fu proprio il rigido, ma in fondo buono, Monaldo a dimostrare segni di quella comprensione misericordiosa, la cui autenticità è misurata dalla contrapposizione ideologica del papalino nei riguardi delle «empie» Operette Morali del figlio.
Monaldo incominci a mandargli, a volte ad insaputa della economa moglie, cibo e denaro per sollevarlo dalla fame, e forse distoglierlo dalle frodi cui il disperato ricorreva; si rattristava perché il figlio non passava per Recanati, tra i suoi viaggi e, se non gli chiese perdono, fu forse per non offendere la delicatezza del figlio[33]. Fu dunque sincero Giacomo quando si professava, coinvolgendo ormai anche la madre nella riconciliazione, «loro» figlio affezionato, e quando rassicurava il padre – con una bugia anche pietosa – di star bene in salute o di voler correggere le Operette Morali in senso meno pessimistico[34].
Per concludere comunque questa evoluzione, ricordiamo che le lettere di Giacomo al padre costituiscono uno degli esempi più dolci e delicati di amore filiale. La frequente dichiarazione di «amore» verso i genitori e la ripetuta dichiarazione del «bene che sempre (essi) gli hanno avuto» potrebbe suonare una falsità giustificata dalla «captatio benevolentiae», se non notassimo un particolare. Le più recenti lettere di Giacomo con siffatte espressioni datano del 1836, e due lo stesso anno di morte. È vero che Giacomo aveva ancora bisogno di soldi, ma, quando perlomeno scriveva la lettera del 27 maggio 1837, egli era sicuro di morire, di non avere più tempo di passare per Recanati e di aver bisogno soltanto che si pregasse per una sua «buona e pronta morte». Firmato: il suo amorosissimo figlio Giacomo. Già da anni chiamava suo padre: «papà caro».
E non è possibile che quell’uomo così sensitivo non ricordasse i terrori subiti. Seppe vincerne il ricordo con la pietà che comprende e perdona volentieri.
Vediamo dunque, ora, questa pietà di cuore e la sua evoluzione.
Giacomo era portato per carattere alla compassione[35], e già nello Zibaldone del 1820 teorizzava la «compassione come fonte di amore».
Ma allora si trattava semplicemente di «tenerezza», come mostrano anche le poesie di quel periodo[36] o si evince dal ricordo di quanto egli teneva fra le proprie braccia il corpo piccino di Luigi[37]: era intenerimento per le cose deboli, come per «un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante e con una cert’aria di impotenza»[38]. Inoltre, si trattava di una autocompassione, psicologicamente narcisista, evidenziata dalla specificazione delle «sventure» di cui è vittima il soggetto stesso, «come il Petrarca», in fatto di «compassione»[39]. In altri termini, si trattava sempre dell’«amore verso se stesso» che il «vivente» si porta, teorizzato a partire da quegli anni[40]. Tuttavia, già allora il Leopardi seppe forse esprimere una compassione in qualche misura dialogica, quando ad esempio, canzonato dal nipote del curato di Monte Morello che lo chiamava «gobbo», gli si avvicinò e gli regalò confetti (Antona-Traversi). È ovvio che questo gesto è collocabile psicologicamente in un meccanismo difensivo a mezzo della benevolenza accattivante; ma è anche vero che ci vollero almeno due decenni perché il Leopardi acquistasse pienamente il senso dialettico del compatire.
A ciò, gli giovarono certamente le esperienze di gratificante amorevolezza da parte del prossimo. Accenniamo qui, soltanto, agli amici fiorentini, alle famiglie Maestri e Tommasini, che talmente gli aprirono il cuore da «commuoverlo»[41]. Il poeta si trovò un po’ liberato dall’egocentrismo, ed arrivò al punto da essere lui il consolatore, da raccomandare «pazienza» nella vita, da incoraggiare all’«allegria»[42].
La forma del compatire si svincolava sempre più dall’elemento egocentrico. Se l’immensa compassione per Silvia resta, in fondo, ancora rivolta a se stessa, è tuttavia più matura, più pia e liberata di quella per la «donna trucidata». Di fronte a quella «mano» che mostrava una tomba «ignuda» – mano inutile eppur tanto cara – non si riscontra nessuna colpevolizzazione, come al contrario nel caso della successiva passione, interessata, per «Aspasia». Ancora un altro rilievo: quando c’era una donna che gli voleva bene fraternamente, cioè con atteggiamento di autentica comprensione che sapesse perdonare le sciatterie di Giacomo e i suoi difetti in generale, come Teresa Lucignani, egli perdeva tutta l’astiosità verso le donne (questo, lo diciamo indipendentemente dalle considerazioni sugli altri dinamismi psichici sottesi).
Se, nel 1827, il Leopardi affermava che «veramente e perfettamente compassionevoli», non si possono trovare fra gli uomini[43], rivelava già un’evoluzione sorprendente: poiché, davvero, uomini «completamente» tali non ce ne sono, non dubitava che uomini compassionevoli, benché in misura diversa e al disotto della perfezione, ce ne erano. E questo è segno di riconciliazione con il «mondo» dei suoi simili. Così poté accadere, ad esempio, che se lui stesso non fu condannato da diverse persone, pur cattoliche, per le Operette Morali, e si sentì avvicinato con longanimità cordiale, come da Alessandro Manzoni – con un divinamente terribile «vai, neppure io ti condanno» che nulla ha a che vedere con il permissivismo o il tradimento di sé, dei quali si ha tutt’altro che bisogno –, così anche lui imparò a rispettare gli altri, perdonando loro. Riguardo ai «principii» dei Dialoghetti di suo padre, il Leopardi proclamò, senza abdicare a sé e senza dileggiare gli altri: «io li rispetto in Lei ed in chiunque altro li professa in buona fede»[44].
Nel 1829, il Leopardi riprende il noto discorso che il disprezzo, come umiliazioni mortificanti, disistima avvilente, condanna sprezzante, spegne ogni «sentimento o slancio di entusiasmo», e quindi la «compassione»[45], portando l’esempio personale di quando, giovane, era «abitualmente disprezzato e vilipeso». Ma è importante notare il fondamento diverso che egli pone alla necessità di «essere stimati». Esso non è più nell’ordine del degustamento di sé, del «piacere» narcisistico, ma della «coscienza del proprio essere».
Tale convinzione ha un rapporto indubbio con la riappropriazione della dignità umana e quindi dell’alta responsabilità di sé che ha l’uomo – verso cui l’antropologia ottocentesca incoraggiava, ma che già prima San Paolo aveva affermato come principio di ogni rapporto serio con il divino –, della quale il Leopardi era stato rapinato, ancora in casa. Infatti, è vero che tale «coscienza di sé» fa riferimento alla realtà egoica («il se stesso»), ed è vero che la «compassione, anche in apparenza la più pura, la più rimota da ogni relazione al proprio stato, passato o presente, e da ogni confronto da esso», ha come motivo intrinseco e strutturale («essenziale e necessario»), in fondo, l’amore di sé – un «sé» magari «inconsapevolmente» presente –; ma il fondare la compassione sul «sentimento e la coscienza di un proprio essere e valere qualche cosa» significa essere usciti da una rappresentazione completamente edonistica della compassione. Qui la compassione diventa, teoricamente, misericordia, nonostante l’impianto fondamentalmente negativo del pensiero leopardiano. Infatti, misericordioso, in senso autenticamente benevolo e non già melanconicamente autogratificante, può esserlo solo chi veracemente e cioè umilmente, sa se stesso come un valore in sé, sia pur nelle manifestazioni opportune «nel mondo», sul quale pone l’accento l’Autore. E, in effetti, sono coloro che portano più valore ad essere più misericordiosi.
Se il Leopardi, nello stesso brano osserva («Quel che si dice») che il «debole» non può nutrire compassione, è perché, trasportando ancora su un piano astratto i propri vissuti, è in parte legato al concetto che l’esser disprezzato determina una reazione di autodifesa psichica esercitata negando affetto e compassione. Ma questo quadro di egocentrismo demoralizzato è, per altro verso, ridimensionato: l’Autore non vi presta infatti più una fede generosa, visto che egli pone tale meccanismo come condizione di fatto, quindi come ciò che è da superarsi teoricamente. E in realtà esso è superato nel momento in cui l’uomo è messo in un contesto in cui sia riconosciuto per quello che, come essere che vale, merita di diritto di essere apprezzato e amato, come il Leopardi allude portando esempi di fatto[46].
L’interpretazione potrebbe essere avallata dal giudizio che il Leopardi diede più volte sul Manzoni, accostando sempre l’«amabilità» con il «valore»[47]. Benché in un primo momento non dimostrò molto entusiasmo per I promessi sposi (forse per un ennesimo sussulto di paura di venir oscurato sulla scena letteraria, da lui ambitissima?), in un secondo momento il Leopardi si interessò più affettuosamente al «suo romanzo». Ma fu soprattutto nel rapporto personale dell’incontro e del colloquio («seco a lungo») che il Leopardi dovette constatare un uomo lontano nella fede, vicino nell’amore. E anche questo significa il «rispettabile» accostato all’«amabile» con cui si esprime il Leopardi al riguardo di quell’uomo dall’«animo bellissimo».
La «tirannia» che inaridisce il cuore è terribile. «La disperazione della natura», del vivere sereno nell’equilibrio della gratificazione «naturale», é feroce[48]: ma «contiene la speranza»[49].
E fu questa «illusione» – che è «verità» antagonista al «vero» – a condurre il Leopardi all’immagine, se non al sacramento, della misericordia[50], poiché le «illusioni […] durano ancora a dispetto della ragione»[51].
Così, se il Leopardi si augura di non «aver demeritato una menoma particella del bene che (i genitori gli) hanno voluto innanzi», ha saputo anche concludere la sua malvagia e bella avventura con un’umile fiducia, appropriandosi del diritto umano alla speranza nella paternità che «giustifica».
«Se morrò prima, la mia giustificazione sarà affidata alla Provvidenza»[52]. Francesco di Ciaccia
[1] I due aspetti che qui indichiamo, cioè della «tirannia» e dell’«amorevolezza», potrebbero essere studiati sotto altre configurazioni vissute, ad esempio, nella concezione leopardiana, della «ragione» e della «natura». I fattori dinamici della «paternità» e della «maternità» possono inoltre essere considerati in rapporto ad altri specifici atteggiamenti, come lo «studio matto e disperatissimo», la nevrosi, l’astenia, la «noia» mortale, la «cattiveria», e, sotto l’aspetto archetipo della «madre», l’erotismo, il concetto dell’«infanzia», del suicidio, della morte. Di questi «campi» fenomenologici, noi qui toccheremo solo quanto costituisca conseguenza o dimostrazione della «tirannia» genitoriale e del superamento «misericordioso» leopardiano.
[2] Nel 1803, i beni patrimoniali dei Leopardi erano in tale rovina, a causa dell’inaccortezza amministrativa di Monaldo, che si dovette affidare l’amministrazione, sotto la consulenza di Adelaide Antici, al vescovo Alliata, governatore di Loreto.
[3] La «bontà» testimoniata è riferibile tuttavia anche alla «religiosità» della Antici, che tra l’altro aveva composto delle poesie sacre. Per la referenza delle testimonianze, cfr. Roberto Weis, Giacomo Leopardi, studio biografico, Helsinki 1958, pp. 20 ss. Cfr. anche Italo de Feo, Giacomo Leopardi. L’uomo e l’opera, Milano 1972, pp. 28 ss.; 61-62; 30; 159; 388.
[4] Lettera a Giacomo Leopardi, 14 aprile 1823. Adelaide fu presa da disperate «convulsioni», Monaldo si diede a gesti «pietosi», Paolina ne fu terrorizzata.
[5] Cfr. I. de Feo, op. cit., pp. 27-28. Se il quadro tracciato dal Leopardi non rispondesse, per caso, all’obbiettivo comportamento della madie, e fosse, in maggiore o minore misura, interpretativo, costituirebbe ancor di più una prova, per la modalità negativa del vissuto, del danno subito in famiglia. Ma gli appunti leopardiani sono troppo «prosaici» per non prestarvi fede.
[6] Lettera di Carlo Antici a Monaldo Leopardi, dicembre 1818. Cfr. I. de Feo, op. cit., pp. 135, 137-138.
[7] Zibaldone, 125, 16 giugno 1820; cfr. anche 1473-1474, 9 agosto 1821; 1588-1589, 30 agosto 1821; 1641-1650.
[8] Per la novella Senofonte e Machiavello, 13 giugno 1822.
[9] Galantuomo e Mondo, 1821 (secondo il Levi): la virtù serve «a non cavare un ragno da un buco», e giova solo «a fare che tutti vi mettano i piedi sulla pancia, e vi ridano sul viso e dietro le spalle», «a essere schiaffeggiato, sputacchiato anche dalla feccia più schifosa». Ma ciò è affermato appunto in rapporto al «mondo», inteso come il luogo del conflitto per l’autoaffermazione – come è detto poco prima. Il periodo di composizione di questa e simili opere dimostra la reattività del Leopardi nei confronti delle umiliazioni patite in casa e dagli «zotici, vili» abitanti (come il Leopardi li apostrofava, a detta di Antona-Traversi) del «borgo selvaggio».
D’altra parte, e per una corretta interpretazione dell’universo etico-religioso del Leopardi, bisogna ricordare che la vita affettiva e mentale del Leopardi parte dal cattolicesimo, e si dibatte, sia pur nel contrasto violento psicologico e intellettivo, entro quell’orizzonte medesimo, come ho rilevato ne Il «cristianesimo» di Giacomo Leopardi, «Humanitas», di prossima pubbl.
[10] Zibaldone, 1648-1650, 7 settembre 1821.
[11] Pensieri, XVI. Cfr. Zibaldone, 1648-1650, 7 settembre 1821. L’Autore sottolinea nel testo il verbo «s’usa», e anche ciò sta a indicare il tipo di necessità della «cattiveria», e cioè della prassi, del «vero», che frustra l’ideale, la «verità». Ma, per ciò stesso, la bontà è posta come necessità autentica.
[12] Il Leopardi non trovò mai il «tempo», nonostante le insistenze e dopo tutti gli amorevoli aiuti del Colletta, di correggere la sua Storia del regno di Napoli dal 1734 al 1825. Il Colletta gli aveva procurato danaro e si era interessato per la pubblicazione delle opere di Giacomo; aveva abitato, per un periodo del 1830, in unastanza accanto a quella del Leopardi, che aveva «tempo» per altri e non per lui. Malgrado la sfacciata ingratitudine dell’amico, Pietro Colletta, che pur non condivideva il pessimismo filosofico degli scritti leopardiani, gli scriveva ancora affettuosamente («[…] come padre e figliolo, vi stringo al seno»), e con lusinghiera stima («Possa l’Italia pregiar l’opere vostre quanto esse meritano»), ancora il primo aprile 1831. Alla morte di quell’uomo, l’anno stesso della citata lettera, il Leopardi disse poco più di: «Povero lui!».
[13] Lo zio lo aveva ospitato a Roma in casa sua, nel 1821, permettendo a Giacomo di lasciare Recanati e promettendogli un posto di lavoro. Ma in Vaticano il conte Giacomo non era ben visto, poiché lo sapevano incline alle «nuove opinioni morali e politiche», e «amico ed intrinseco di persone già note per il loro non savio pensare» (dalla relazione del card. Della Somaglia, 21 novembre 1825; ma simile era la «fama» del Leopardi già nel 1821). L’Antici non credette allora opportuno sostenere il nipote presso lo Stato Pontifido. Comunque più volte successivamente usò al nipote la benevolenza di onorare cambiali a benefido di Giacomo, che questi firmava a carico dello zio senza neppure sempre avvertirlo.
[14] Nonostante la calda amicizia del cugino, il Leopardi lo definiva allegramente un «coglione» che invitava «mezzo mondo a mettergli tre braccia di coma» (Lettera a Carlo Leopardi, 16 dicembre 1822).
[15] Il Tommaseo lo osteggiò per le empie Operette Morali, stilando una recensione stroncante e facendo una propaganda, anche in Francia, spietatamente avversa. Il Leopardi lo chiamò «asino italiano, anzi dalmata» (Lettera a Luigi Sinner, 3 ottobre 1835) e «pazza bestia», scrisse una biografia su di lui pesantemente sarcastica (forse nell’agosto 1836), e prese a chiamare gli organi sessuali maschili con il nome di Niccolò: «tommasei». Arrivò ad accompagnare il termine con gesti così significativi, che ne fu redarguito dallo stesso Ranieri.
[16] Era il tempo dei Discorsi sacri, del Dialogo filosofico e forse anche degli abbozzi degli Inni sacri. Cfr. I. de Feo, op. cit., p. 29.
[17] Lettera a Pietro Giordani, 5 dicembre 1817. Circa le conseguenze, nel pensiero leopardiano, del disprezzo sofferto, cfr. Zibaldone, 4438-4439 del 1829; 4499, 5 maggio 1829.
[18] Ricordi di infanzia e di adolescenza.
[19] Mentre prima della «conversione» alle idee liberali lo sollecitava alla pubblicazione, dopo, invece, Monaldo osteggiò il figlio fin dall’epoca dei primi Canti. Cfr. I. de Feo, op. cit., p. 80. Lettera a Pietro Giordani, 18 gennaio 1819 e 26 marzo 1819.
[20] Lettera alle Brighenti, appena dopo la morte di Giacomo.
[21] Caesarem tyramnum fuisse rationibus probatur; Morte di Catone.
[22] Carlo Leopardi, Ricordi, 17.
[23] Zibaldone, 206; cfr. Zibaldone, 478. Per l’«indolenza», cfr. Zibaldone, 72 e 85; per la «noia», cfr. Zibaldone, 72; 140-141; 1554-1555; 4043; per la «vitalità» dell’anima, cfr. Zibaldone, 116-117; 2433-2434.
[24] Lettera a Pietro Giordani, 4 giugno 1819 e 21 giugno 1819. Ma già l’8 agosto 1817 gli scriveva furiosamente del proprio allucinante continuo «passeggiar senza MAI aprir bocca»: «così vivo e son vissuto con pochissimi intervalli per sei mesi».
[25] Zibaldone, 611-612, 4 febbraio 1821.
[26] Zibaldone, 3078, 1 agosto 1823.
[27] Zibaldone, 254-255, 30 settembre 1820. Per una visione approfondita delle risultanze patologiche dell’educazione ricevuta, cfr. M.L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su Giacomo Leopardi, 1896.
[28] Lettera a Carlo Leopardi, 9 gennaio 1823.
[29] Lettera a Monaldo Leopardi, luglio 1819.
[30] Cfr. i sonetti Al signor Conte Monaldo Leopardi, Giacomo Leopardi al suo amatissituo genitore Conte Monaldo Leopardi, del 1 gennaio 1810, e Giacomo Leopardi al suo diletto genitore, del 30 giugno 1810.
[31] Lettera a Monaldo Leopardi, 24 dicembre 1827.
[32] Lettera a Monaldo Leopardi, luglio 1819.
[33] Salvo che per quest’ultima ipotesi, cfr. L de Feo, op. cit., p. 371. Testimonianze degli aiuti e delle premure per Giacomo sono in quasi tutte le lettere tra il padre e il figlio successive al 1827.
[34] Lettera a Monaldo Leopardi, 30 ottobre 1836. Per l’affettuosa relazione filiale in genere, rimando a tutte le lettere di Giacomo al padre successive al 1828.
[35] Cfr. Ricordi di infanzia e di adolescenza.
[36] Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, del 1819; Nella morte di una donna fatta trucidare…, del 1819.
[37] In Ricordi di infanzia e di adolescenza; cfr. Zibaldone, 4488, 14 aprile 1829.
[38] Zibaldone, 220-221.
[39] Zibaldone, 108-109.
[40] Perlomeno fin dallo Zibaldone, 646-650, 12 febbraio 1821.
[41] Lettera ad Antonietta Tommasini, 5 luglio 1828.
[42] Lettera ad Adelaide Maestri, luglio 1829.
[43] Zibaldone, 4287, 23 luglio 1827.
[44] Lettera a Monaldo Leopardi, 28 maggio 1832.
[45] Zibaldone, 4488-4489, 14 aprile 1829; cfr. 4492-4493, 22 aprile 1829.
[46] Per questa contraddizione che sussiste nell’animo del Leopardi, si verifica ancora un’«alternanza» – confessa l’Autore – di stati d’animo di compassione e di reazione. Del resto, noi abbiamo visto questa situazione nei fugaci cenni biografici, intorno e anche dopo il periodo in questione.
[47] Lettera a Monaldo Leopardi, 17 giugno 1828: «e Manzoni è un bellissimo animo, e un caro uomo». Lettera allo Stella, 8 settembre 1827; Lettera al Papadopoli, 25 febbraio 1828.
Per la mia interpretazione sul meccanismo di difesa leopardiano nei confronti della fama del Manzoni, cfr. «Lettera a Pietro Brighenti, 30 agosto 1827 e Lettera al Vieusseux, 31 dicembre 1827, in cui l’Autore dice di non approvare circa il Manzoni la «divinizzazione che […] si fa» di lui. La sottolineatura del Leopardi, ed emotivamente significativa.
[48] Zibaldone, 4413; cfr. anche 112-113 e 358.
[49] Zibaldone, 618-620; cfr. anche 1545-1546.
[50] Non entriamo in merito alla questione. Cfr. il mio art. cit. e inoltre, per un’interpretazione dell’ateismo leopardiano nel quadro anche di una tensione al «diritto delle proprie responsabilità» esperito nel rischio di esserne defraudato, cfr. la mia Ipotesi interpretativa dell’«ateismo» di Giacomo Leopardi, in «Letture bibliche e religiose», di prossima pubbl.
[51] Zibaldone, 215-217.
[52] Lettera a Mortaldo Leopardi, 11 dicembre 1836.
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